Il termine Audience Design è stato originariamente utilizzato come un modello sociolinguistico, proposto per la prima volta da Alan Bell nel 1984. In questo contesto, l’audience design si riferisce alla pratica di modellare il linguaggio tenendo conto del pubblico dell’oratore, ossia i suoi destinatari, e successivamente adattare la comunicazione alle esigenze di tale pubblico. È il concetto di base che si può riassumere in “pensa a chi stai parlando” e “parla in modo tale che il tuo messaggio venga compreso“.
L’approccio si concentra su come pensare al pubblico in fase di ideazione, e su come sviluppare una strategia di contenuto e di comunicazione che permetta di identificare, raggiungere e coinvolgere efficacemente tale pubblico, in svariati contesti, anche quello di un film. Questo processo richiede non solo una comprensione approfondita delle persone, ma anche la capacità di adattare i messaggi e i canali in base ai bisogni e alle aspettative degli spettatori, garantendo che la comunicazione sia rilevante, chiara e persuasiva.
L’audience design e il data humanism che tanto sta a cuore a noi di BUNS possono intrecciarsi in modo molto significativo, poiché entrambi si concentrano su come i dati e la comunicazione possono essere umanizzati e resi più rilevanti per il pubblico. Il data humanism cerca di rendere i dati accessibili e comprensibili, mettendo al centro l’esperienza umana. Allo stesso modo, l’audience design si basa sulla personalizzazione della comunicazione, adattandola ai bisogni e agli interessi specifici del pubblico. Combinando questi due approcci, è possibile creare strategie di comunicazione basate su dati complessi ma espressi in modo chiaro e coinvolgente, consentendo di raggiungere il pubblico in maniera più empatica e comprensibile.
Nicolò Gallio è un professionista con anni di esperienza nel settore delle industrie culturali e creative, spaziando dai media online e offline a progetti realizzati in collaborazione con università, festival cinematografici, brand, giornali, magazine, e agenzie di marketing e comunicazione. Con un dottorato di ricerca in Studi teatrali e cinematografici, il suo interesse si concentra sulla relazione tra narrazioni audiovisive, media digitali, consumo e strategie promozionali. Nel suo lavoro di consulente, Nicolò si occupa di analisi approfondite di film, serie TV e brand, collaborando con agenzie, associazioni culturali, produttori e distributori. Inoltre, propone workshop e masterclass in tutta Europa, condividendo le sue competenze con una vasta gamma di clienti.
E sì, si occupa anche di Audience Design. Da diversi anni è, infatti, consulente per il Torino Film Lab, dove ha dapprima completato l’Audience Design Programme ed in seguito ha continuato a collaborare come trainer e advisor, contribuendo a formare nuovi professionisti, curare eventi e ideare strategie di audience design per coinvolgere il pubblico e sensibilizzare su film e progetti mediatici sia nelle fasi iniziali che avanzate dello sviluppo.
Abbiamo fatto due chiacchiere con lui per saperne di più.
Grazie per aver accettato questa intervista. Come hai iniziato tu ad avvicinarti a questa disciplina? Quando è stata la prima volta che ne hai sentito parlare?
Grazie a voi dell’interesse per l’argomento. Il tema del pubblico, della promozione e della ricezione di prodotti audiovisivi era già centrale nelle mie attività di ricerca universitaria, considerati principalmente attraverso la lente di discipline e ambiti di studio come i fan studies e il marketing. Per quanto riguarda l’audience design, trattandosi di un approccio sviluppato da TorinoFilmLab (TFL) nel settore specifico dell’industria del cinema in Italia, si è trattato invece del classico esempio di passaparola tra “amici di amici” che lavoravano nell’ambito della comunicazione e dell’audiovisivo. Nel 2012 ero a Londra e stavo per rientrare in Italia dopo un periodo di ricerca svolto nell’ambito del Dottorato che stavo completando all’Università di Bologna. L’amica di un amico, appunto, sapendo del mio interesse per cinema, pubblico e promozione, mi aveva suggerito di incontrare una persona che secondo lei aveva la mia stessa passione e che viveva a Londra in quel periodo. Così, letteralmente l’ultimo giorno prima del mio rientro in Italia, sono finalmente riuscito a scambiare quattro chiacchiere in un pub con Mathias Noschis, fondatore dell’agenzia di marketing cinematografico Alphapanda. È stato Mathias a raccomandarmi quello che allora si chiamava Audience Design Programme, che lui stesso aveva frequentato l’anno precedente, alla sua primissima edizione. Dopo questo incontro ho verificato sul sito di TorinoFilmLab che proprio in quel periodo accettava quattro candidature per l’edizione 2012, e che l’application si sarebbe chiusa il giorno seguente. Ho letteralmente iniziato a preparare i documenti in aeroporto, e mandato il tutto la sera stessa.
La metodologia proposta da TFL, sotto la guida di Lena Thiele e Valeria Richter, per me aveva totalmente senso: avendo già lavorato tra giornalismo, PR, comunicazione e marketing, il fatto di avere ben presente il pubblico a cui ci rivolgiamo quando creiamo i nostri messaggi, era già parte del mio modo di lavorare. Sembra un’ovvietà, ma per molti creativi che non hanno una formazione in queste discipline e operano nell’ambito di linguaggi e pratiche artistiche in generale, il focus è di solito principalmente sul contenuto, l’esperienza o la performance, mentre l’audience è un concetto che, oltre ad essere astratto, non è la priorità per sceneggiatori, registi e produttori (che casomai se ne interessano quando le cose non funzionano e i film non incontrano il pubblico). Una situazione, quella delle industrie culturali e creative, diametralmente opposta rispetto ad altre in cui prodotti e servizi nascono proprio per soddisfare un bisogno del consumatore e sono, come si dice, audience-centred fin dall’inizio.
Dal tuo punto di vista esiste una differenza tra target e audience? Ci sono differenze rispetto all’approccio tradizionale del marketing?
Spesso target e audience sono utilizzati in modo intercambiabile, se non addirittura racchiusi in una stessa espressione in inglese: target audience. C’è però una differenza diciamo “filosofica”, nel senso che tutti siamo potenzialmente audience (o pubblico, o consumatore, o utente che dir si voglia) di qualcuno o qualcosa, ma diventiamo target quando rappresentiamo un obiettivo o un destinatario veramente in linea con le esigenze specifiche del prodotto o servizio che tenta di raggiungerci con azioni proattive di marketing e comunicazione. I target hanno caratteristiche demografiche, psicografiche e comportamentali ben delineate, basate su ricerche e studi, mentre l’audience è considerata per lo più un generico insieme, spesso indistinto, e che, almeno sulla carta, sembra interessante da raggiungere. Se l’audience include chiunque può essere esposto ad un messaggio, e quindi sia il target che altri gruppi non per forza rilevanti ma che sono esposti alle azioni di marketing e comunicazione, il target ne è un sottogruppo che è assolutamente in linea con chi si vuole “ingaggiare”.
Per quanto riguarda la differenza tra audience design e marketing, fino a qualche anno fa potevamo distinguere gli sforzi dell’uno e dell’altro con un esempio pratico, almeno in ambito audiovisivo: molte agenzie o consulenti di marketing cinematografico semplicemente non lavoravano su progetti ad uno stadio di sviluppo iniziale (soggetto o sceneggiatura), preferendo invece concentrarsi sulla promozione di un film finito (o quantomeno a partire da una prima versione del montato). Oppure il grosso dello sforzo promozionale era limitato alla premiere ai festival e all’uscita in sala, tralasciando il lungo termine. Adesso molto spesso non è così, quindi la differenza è più sfumata e possiamo dire che l’audience design si occupa di mappare una varietà di pubblici, possibili direzioni e scenari, e il marketing della “messa a terra”. Il primo ha spesso un intento ispirazionale, volutamente aperto, ed è molto utile ai team creativi (sceneggiatore, regista, produttore…) per comprendere appieno il potenziale del film. Poi, una volta presa la decisione sulla direzione in cui andare, il marketing si occupa di pianificare ed eseguire tutto il necessario per arrivarci, testando e monitorando continuamente l’esecuzione e l’efficacia delle varie attività.
Se poi cambiamo la prospettiva e osserviamo la situazione dal punto di vista del marketing, se un cliente approccia un professionista o un’agenzia di marketing e comunicazione quello che ottiene è una proposta di azione basata sul pacchetto di offerte o sull’approccio specifico di quel fornitore, che si tratti di social media marketing, PR, influencer marketing, advertising… L’audience design ha invece un approccio “olistico”, che fa leva sullo storytelling e in termini pratici prende poi la forma di una content strategy tarata sui vari segmenti di pubblico, lasciando tutte le porte aperte per poi prendere specifiche direzioni attraverso azioni di marketing e comunicazione ad hoc. Ha una cassetta degli attrezzi variegata e “inclusiva”, che nel 2018 è stata presentata nel libro Audience Design: An Introduction (scaricabile gratuitamente qui), e che da allora ha continuato ad evolvere. Attinge da tante discipline e metodologie, dalla comunicazione al Design Thinking, da strumenti di marketing a template di business strategy. Ma l’aspetto più funzionale, dal mio punto di vista, è che non sono messe in competizione l’una con l’altra, e anzi ogni audience designer può far leva sul proprio background professionale. Per questo anche oggi, nei momenti di training come i workshop residenziali dell’Audience Design Lab (la cui call è aperta fino al 12 novembre), è normale avere tra i candidati professionisti che spaziano da PR a marketing e sales, ma anche produzione, graphic design, sceneggiatura… Ognuno poi trova la sua strada per integrare al meglio l’audience design nelle proprie competenze.
Rispetto all’esperienza con il Torino Film Lab, quali sono i passaggi chiave che un gruppo di lavoro viene chiamato a considerare per garantire che le esigenze e le aspettative del pubblico siano prese in considerazione sin dalle prime fasi della produzione?
Lo sforzo maggiore di quelli che chiamiamo “film team” è guardare ai propri progetti attraverso lenti e prospettive diverse. Anche un esercizio all’apparenza semplice come creare delle buyer personas è una novità per chi non è abituato a ragionare mettendosi nella prospettiva di altre persone o tipologie di pubblico. Ma è altrettanto importante capire quali sono gli obiettivi e le aspettative di chi ha creato quella storia e come può cambiare la sua ricezione al di fuori del territorio in cui è sviluppata, quali sono le sfide principali nei vari stati europei e a livello internazionale, in mercati anche molto diversi da quello di partenza. Si parte sempre e comunque dalla mappatura della storia e dell’universo narrativo in cui è ambientata, si scompone il film in tanti pezzetti, ognuno dei quali può essere interessante per un certo gruppo. Quindi in parallelo si ragiona molto sui diversi target e sulle specifiche caratteristiche di ognuno. In un secondo momento si pensa a touch point, user journey, materiali creativi e pacchetti di comunicazione, analisi di benchmark…
L’audience design può influenzare la scrittura e la struttura narrativa di un film? Si può garantire che la storia risuoni con il pubblico target senza compromettere la visione artistica del regista e dello sceneggiatore?
Potrebbe, ma non è questo l’obiettivo. Può capitare ad esempio che alla fine del processo uno sceneggiatore o un regista torni al suo materiale nuovamente ispirato e decida di apportare delle modifiche. Ma l’audience designer non è uno script consultant, anche se spesso lavora su sceneggiature. E non è un professionista che dice ad un altro professionista di cambiare la sua storia per soddisfare le aspettative del pubblico, a meno che non sia lo sceneggiatore stesso a volerlo fare per venire incontro a quello che i fan di certi generi si aspettano di trovare in una data storia. Soprattutto nell’ambito dell’offerta formativa di TorinoFilmLab, dove ci sono altri programmi per chi ha bisogno di affinare il proprio progetto dal punto di vista del sostegno alla scrittura e allo sviluppo, come ScriptLab o FeatureLab, le attività di audience design sono sempre al servizio del film e supportano la visione creativa del team creativo, stabilendo fin dall’inizio i limiti e le aree di intervento, incluso tutto ciò che non è in linea con lo spirito del progetto o la visione che lo sorregge.
Possiamo chiederti, infine, un breve racconto di un caso studio virtuoso in cui è stato applicato con successo l’audience design per un progetto cinematografico? Siamo molto curiosi.
Parto da una premessa. Dobbiamo sempre pensare che i progetti su cui molto spesso gli audience designer sono coinvolti hanno fortissime caratteristiche autoriali e sono molto locali (anche se io preferisco il termine “glocal”). Sono quei film identificati come arthouse o d’essai, e spesso lo sceneggiatore/la sceneggiatrice è anche il regista del suo film. Al tempo stesso c’è tantissima creatività nella promozione di titoli americani, che hanno importanti budget di marketing per attività estremamente creative e non convenzionali. Quindi per paradosso la promozione di molti titoli degli Studios hanno proprio lo spirito dell’audience design e hanno le caratteristiche di innovazione e pensiero “out-of-the-box” su cui anche noi cerchiamo di insistere, con molti meno mezzi (anche se, con l’introduzione dell’Audience Design Fund, TFL ha stanziato un budget dedicato proprio a sostenere economicamente tre progetti all’anno nelle attività promozionali ispirate alle consulenze degli audience designer).
Detto questo, spesso un ottimo risultato per un film arthouse tipico è dedicare molta più attenzione della media alla creazione di versioni alternative del poster, che possano parlare a pubblici diversi in diversi stati e contesti. O ragionare su un pacchetto di azioni digitali e attivazioni/performance onsite durante un festival. Spesso l’obiettivo è cercare di raggiungere un pubblico che vada al di là di quello arthouse e festivaliero che tutto il cinema indipendente cerca di raggiungere, lavorando magari su quelle che ai più sembrano nicchie, o sviluppando pacchetti educational per le scuole, o stabilendo sinergie con associazioni o gruppi che hanno a cuore temi come creare awareness sul cambiamento climatico, migliorare le condizioni di lavoro in certi territori, o che si battono per il progresso della situazione delle donne in contesti dove l’accesso all’istruzione e ad attività ricreative e lavorative è limitato.
Tra i titoli che posso menzionare ci sono alcuni progetti supportati dall’Audience Design Fund di recente, come il documentario di Nada Riyadh and Ayman El Amir The Brink of Dreams (2024), che ha avuto la premiere a Cannes proprio quest’anno. Il film è incentrato su un gruppo di giovani ragazze egiziane che tentano di portare avanti la propria passione per il teatro in un villaggio conservatore e nonostante l’opposizione dei familiari. Parte del sostegno al film è stata dedicata a creare le condizioni perché le ragazze potessero organizzare una performance di teatro di strada dal vivo durante il festival, creando una buona copertura mediatica dell’evento, da Le Monde a Variety. Per All We Imagine as Light – Amore a Mumbai (2024) di Payal Kapadia, vincitore del Grand Prix a Cannes e ora al cinema nelle sale italiane, nel promuovere la delicata storia di tre donne sullo sfondo delle dinamiche sociali nella frenetica capitale indiana, le attività si sono concentrate sull’ottimizzazione dei vari pacchetti promozionali (social media, digital marketing, PR) assicurando coerenza nella distribuzione dei contenuti pensati per i diversi target (ad esempio le comunità indiane residenti in Francia e pubblici con interessi legati al femminismo), affinando al contempo gli asset per il vasto mercato indiano – in tutto questo non ha guastato un divertente red carpet virale a Cannes. Oppure ancora Brief History of a Family di Jianjie Lin (2023), un solido dramma psicologico dalle tinte thriller incentrato su segreti familiari nel contesto della Cina post-politica del figlio unico, la cui comunicazione ha sfruttato in modo sofisticato idee legate al cibo e alla cucina, rendendole parte integrante dell’artwork e dello storytelling, e facendo leva sulle community dei “food lovers”.