La Rivoluzione industriale, dove siamo partiti
Nella storia dell’umanità, salvo alcune eccezioni, il lavoro è rivestito da una connotazione negativa. Pena, dolore e fatica, fino a quando, nel Settecento, questi termini non vengono rinchiusi in grigi edifici atti alla produzione industriale: le Factory. Ma il processo è più complesso. La Rivoluzione industriale in un primo momento rimane ancorata all’Inghilterra, poi si sposta in Germania e in Belgio, per raggiungere, infine, l’Italia, alcune parti dell’Impero austroungarico e la Russia. Migliaia di dipendenti affollano i nuovi edifici e, con la Seconda rivoluzione industriale, si diffonde un modello produttivo basato sulla rigida divisione del lavoro (taylorismo) e sulla catena di montaggio (fordismo).
Scoperto l’ingrediente principale dello sviluppo industriale, gli Stati tirano avanti e durante la Seconda guerra mondiale convertono la produzione di molte fabbriche. I paesi, nella prima metà del Novecento, hanno bisogno di armi sempre più sofisticate e, nei grandi palazzoni, c’è chi se ne occupa. Pena, dolore e fatica a sostentamento delle grandi potenze.
La scoperta dell’elettricità, lo sviluppo del motore a combustione interna e l’invenzione dell’automobile permettono all’Occidente l’ingresso nel pantheon del gigantismo industriale. E sono proprio le gerarchie in fabbrica, la divisione del lavoro e l’alienazione rispetto alla produzione con la quale ci si sporca le mani a permettere lo sviluppo di un terziario (purtroppo) inarrestabile.
Da qui, la narrazione deve cambiare. Le eccezioni, di cui sopra, tornano a bussare. Echeggiano precetti calvinisti: un uomo laborioso accresce la propria ricchezza interiore, in questo modo è degno della benedizione divina. La verità è che c’è bisogno di manodopera. Gli individui sono vittime di una trappola concettuale, nella quale finiscono per rimanere invischiati e lavoro, d’altro canto, deve essere nobile, perché i suoi connotati odiosi sono inevitabili. Il pretesto dell’autorealizzazione e della libertà sono un potente strumento per convincere gli uomini e le donne che hanno sempre lavorato a continuare a farlo, più di prima.
Polanyi, storico e antropologo austriaco, a tal proposito osserva nel saggio La Grande Trasformazione «al centro della Rivoluzione industriale del XVIII secolo ci fu un miglioramento quasi miracoloso degli strumenti di produzione che fu accompagnata da un catastrofico sconvolgimento delle vite della gente comune». Il lavoro diventa il terreno d’elezione per la massificazione e la dissoluzione delle singole identità per un fine esterno a esse.
Il modo di produrre industriale priva, infatti, gli esseri umani del confronto con la realtà che, per loro, si svolge tutta dentro e mai fuori. Questo processo è un caldo invito all’inconsapevolezza; se il mondo cambia, loro sono gli ultimi a rendersene conto.
Educati al fatto che, se avessero sempre lavorato, ne avrebbero tratto giovamento, gli individui hanno continuato a farlo, anche quando, dalla Terza rivoluzione industriale, il terreno entro il quale si erano sempre mossi cambia. E non perché le fabbriche siano diventate di colpo demodé. Ma perché di emancipazione, mobilità sociale e riconoscimento non ce n’è stata traccia. Il lavoro, per secoli accumulato nei corpi di uomini e donne, è rimasto lì e non si è trasformato in nient’altro.
Le promesse (non mantenute) del lavoro salariato e il desiderio personale di cambiare il mondo sanciscono la fine del regime fondato sulla grande fabbrica.
La società moderna e l’anomalia contrattuale
Quando ogni istante della vita è risucchiato dalla necessità di creare valore, le ristrutturazioni aziendali e i licenziamenti di massa sono la condizione ideale per la nascita di un dibattito sulla lealtà delle aziende nei confronti dei lavoratori. Alla fine del secolo scorso, infatti, la crescita del potenziale economico dei paesi in via di sviluppo, la crisi energetica, la diffusione del consumismo, l’elevata competizione produttiva contribuiscono al peggioramento della condizione dei lavoratori.
Le reiterate menzogne sono sostituite dalle nozioni di “precarietà” e “flessibilità”. E la fiducia riposta nei datori di lavoro e nelle aziende si confronta con l’assurdità di una produzione snella e del “just in time”. In Italia, in Europa e nel mondo cade la certezza per un individuo di occupare la medesima posizione per la durata della sua vita. In tal senso, la soluzione alla disoccupazione dilagante che ne segue è la sottoscrizione di contratti sempre meno vincolanti, atipici.
Le forme contrattuali di riferimento durante il secolo scorso scadono, costringendo i lavoratori a esperienze di instabilità lavorativa e personale. Le carriere, come spiega Sennet, sociologo statunitense, non procedono più in maniera lineare e l’unico modo che l’essere umano ha per poter rimanere è adattarsi alle nuove situazioni. La capacità di resistere e di fare fronte alle circostanze sono le competenze richieste oggi dal mercato del lavoro che chiede e non dà. Chiede e non dà, anzi toglie.
Da una parte la precarietà spinge i singoli a ricominciare ogni volta da zero, dall’altra la flessibilità permette loro di essere sempre disponibili a produrre di più. E mentre le aziende tappano i buchi, i lavoratori si spalmano laddove serve. Contratti part-time, apprendistato, stage formativi, collaborazioni. E lavoro in nero. Perché bisogna essere grati di avere un’occupazione anche quando essa sia priva di retribuzione.
Quando si parla di lavoro, infatti, non è un caso che il lato dell’offerta non venga mai considerato. All’interno delle dinamiche presentate, ci sono sempre due parti; un imprenditore che si è fatto da solo e un lavoratore svogliato. In tal senso, l’Italia è un caso interessante di questa anomalia. L’esitazione dei lavoratori ad accettare ogni tipo d’impiego è catalogata con incredulità. I titolari delle aziende valutano come un mistero insondabile il fatto che gli individui possano rifiutare una proposta (in genere, misera), in attesa di un’altra più sostenibile. La strumentalizzazione di questi racconti fa sempre molto scalpore e nella morsa mediatica ci finisce solo chi ha adoperato la propria capacità decisionale in un mondo che stordisce con l’illusione che tutto sia alla portata di tutti.
Chi sono i Quitters?
Le epifanie pandemiche [sono] i momenti di verità durante i quali la vicinanza con la morte ha imposto di guardare negli occhi la propria vita.
ANTHONY KLOTZ
Se la società postmoderna stimola un certo grado di libertà, dove tutti possono fare tutto, appena sotto il glamour dello spettacolo, si nascondono le voci di chi ha dovuto sacrificare le proprie speranze. Francesca Coin, nel saggio Le Grandi Dimissioni, racconta la disaffezione al lavoro. Partendo dall’ironica assunzione secondo la quale “nessuno ha più voglia di lavorare”, ciò che emerge in realtà è che nessuno può più permetterselo.
Durante il Covid-19, il sistema (già rotto) si rompe. Il lavoro, habitué nella sfera privata delle persone, bussa anche alla loro porta di casa. Ed è qui che s’inserisce quella che Coin chiama abilmente “sottrazione”. Al senso pervasivo di tradimento, i quitters reagiscono, andando via. Alle promesse disattese, all’impunità economica, Coin contrappone il loro rifiuto creativo.
Il sintomo della repulsione sveglia le persone in quelle che lo psicologo statunitense Klotz chiama epifanie pandemiche. Tutto ciò che prima era fonte di attrazione finisce con generare rigetto e, allora, la forza distruttrice che coglie i lavoratori in pandemia ha una valenza proattiva. La storia delle Grandi Dimissioni, volontarie e silenziose, è il processo affermativo con il quale la classe precaria rivendica la propria adesione a un sistema di valori più profondo.
Il “venir meno” è un gesto liberatorio. Una risposta intima a una fidelizzazione subdola. Le aziende hanno infatti appreso molti modi per legare a sé il personale. Devozione, lealtà e complimenti per imbrigliare le persone nel proprio ruolo produttivo. Umiliazione, sfruttamento e bullismo per ricordare a ognuno quale è il suo posto. Ecco perché la maggior parte dei lavoratori s’affaccia dalle sbarre di una gabbia, ma non riesce a uscirne.
Dal settore della ristorazione, della sanità, della grande distribuzione, fino a quello della cultura, le persone scelgono di andarsene in maniera disorganizzata e puntiforme, dopo aver fatto un calcolo costi-benefici. Arrabbiati ed esausti, i lavoratori abbandonano anche l’ultimo baluardo di un umanesimo che ha esaltato il martirio solo in certe fasce della popolazione. Chi abbandona oggi non si appella a una qualche etica rivoluzionaria. Chi abbandona oggi vuole sopravvivere. La fine del mese coincide con la fine del mondo e la vicinanza con la morte, spiega ancora Klotz, permette ai lavoratori di sottrarre la propria esistenza da una logica economica che ha funzionato solo per i sacrifici delle persone.
Questo sciopero mondiale non dichiarato non è solo una questione esistenziale, ma soprattutto organizzativa. I quitters, astraendosi dai contesti puramente produttivi, hanno potuto indagare ciò che non sono disposti ad accettare al loro interno. La loro rassegnazione, infatti, non è mai verso la vita in sé e in un’epoca, dove l’appartenenza condanna l’identità, così la sottrazione restituisce dignità all’essere umano.
Negli Stati Uniti e nel mondo
Il fenomeno delle Grandi Dimissioni incomincia negli Stati Uniti e si allarga. Cina, Giappone, Corea del Sud fino ad arrivare in Italia. La convinzione (falsa) secondo la quale chi lascia il lavoro è perché può permetterselo viene prontamente smentita dal fatto che, nella maggior parte dei casi, chi presenta le proprie dimissioni silenziosamente, entro tre mesi, ancora non ha trovato un’occupazione.
Di nuovo, Coin invita a riflettere. Chi può permettersi di andare via l’ha sempre fatto; il motivo per il quale le Grandi Dimissioni allarmano tanto gli studiosi sta nei protagonisti di questo fenomeno. Il binomio vita e lavoro ha condizionato l’esistenza delle persone al punto che ci si è dimenticati che si può continuare a vivere anche senza vendere la propria forza-lavoro. Tale assunzione impone un cambio di tendenza. La spinta controculturale dei lavoratori ha la rabbia come motore di fondo e, per la prima volta, viene stilato un manifesto dove le priorità morali di ognuno valgono di più di quelle del sistema in cui è abituato a operare.
Ecco alcuni movimenti che sono nati nel corso della realizzazione di tutto ciò che il lavoro non è. La bacheca r/antiwork di Reddit è uno spazio di discussione anonimo apertamente contro il mercato del lavoro. Chi partecipa esprime il proprio appoggio per una trasformazione radicale del lavoro, mettendo in evidenza come le preferenze e gli stili di vita siano cambiati durante la pandemia. Per Malone, giornalista statunitense, l’ingresso nell’era dell’anti-ambizione è l’unico modo per reagire a un sistema che, d’altra parte, ha sempre richiesto una devozione completa. In quest’ottica rapportarsi al lavoro come una delle tante componenti della propria esistenza è visto come un affronto. Il punto cruciale della discussione sta nel fatto che stiamo assistendo a una guerra di classe non dichiarata finalizzata a uno sciopero generale non dichiarato.
In maniera analoga, in Cina, è nato un movimento di protesta Tang ping (“sdraiarsi”) per resistere al 996, un sistema dove si chiede di lavorare dalle nove alle ventuno ore settimanali. In tal senso, si cerca un modo per ribellarsi ai ritmi sfrenati della vita lavorativa cinese che incita costantemente all’iper-performatività. Un musicista di Wuhan, Zhang Xinmin, canta «Distenditi, così non cadrai più | Sdraiarsi significa non cadere mai» ed è proprio questo ciò in cui credono i tang ping. Il superlavoro non ha senso perché il sistema non offre una contropartita adeguata ai sacrifici degli esseri umani, anzi ripaga con sfruttamento e umiliazione.
Dopo la pandemia, a Tang ping è seguito un altro movimento, Let it rot (“lascialo marcire”) che suggeriva, non solo l’abbandono del sistema lavorativo, ma di far sì che questo finesse con il deteriorarsi.
Per quanto riguarda il caso italiano, invece, ci troviamo di fronte a un contesto con un elevato tasso di insoddisfazione e privo di opportunità. Anche qui, le dimissioni volontarie sono aumentate dal 2021, anche se un eloquente rapporto Censis sul welfare aziendale mostra come il 56,2% degli occupati si ritiene infelice ma non pronto a lasciare il proprio lavoro. Le stime degli studiosi dichiarano che nei prossimi anni si assisterà a una voglia così potente di vivere la vita che si cercherà un auto-valorizzazione soggettiva per forza al di fuori.
Identità e lavoro, il caso della Gen Z
La società contemporanea investe gli individui con i suoi cambiamenti, tant’è che la sensazione diffusa è di vivere in uno stato di perenne angoscia, perché i rischi che si è forzati ad assumere non sono in alcun modo coperti dalle autorità preposte. Il burnout, lo stress acuto e le malattie mentali sono la risultante di un processo che atrofizza le sue componenti principali: gli esseri umani. In un’epoca di continui sbalzi politici, economici e culturali, le persone, soprattutto Millenial (1981-1996) e Gen Z (1997-2012), si trovano a fare i conti con un immaginario che non è in grado di accoglierli, figuriamoci di definirli.
Fino al 2015, l’identificazione della persona con il proprio lavoro era un’ovvietà, tanto che nelle carte d’identità la mansione era uno strumento di riconoscimento. Oggi i due termini non possono più andare insieme, se non fosse per il fatto che l’occupazione difficilmente rappresenta una componente stabile nella vita dell’individuo.
La Guerra del terrore, il crollo finanziario, la violenza armata nelle scuole, la pandemia e la tecnologia in piena e incessante evoluzione hanno fatto sì che la Gen Z, in particolare, non sviluppasse le competenze necessarie per reagire allo stress. Tuttavia, rispetto alle altre generazioni, gli individui nati tra il 1997 e il 2012 sono più informati, connessi e consapevoli e questo non sempre è un elemento di contatto con chi li circonda, colleghi e datori di lavoro.
Il dialogo generazionale è spesso segnato da pregiudizi. Rispetto ai Millenials, la Gen Z tende a lavorare, più che a fare carriera, perché non ci crede più. Le aspirazioni coltivate dalla generazione precedente nella scalata interna al proprio posto di lavoro sono state abbandonate dalla Gen Z, che ha visto come il mondo ha trattato chi è venuto prima. E invece di contribuire alla costruzione di un immaginario dove difficilmente possono lasciare il segno, preferiscono fare leva sulla velocità con la quale sono stati abituati sin dall’inizio.
Immediatezza, istantaneità e determinazione. I riflettori puntati su cosa non è andato e le reaction di disappunto nei confronti di un mondo, dove continuano a prosperare illusioni e speranze molto lontane dall’essere reali. Il motivo per cui sembra che i giovani non s’immettano nel gioco del super lavoro è proprio perché sanno che difficilmente può cambiare e difficilmente a loro favore. Non si tratta di rassegnazione, ma ancora una volta di sottrazione. Non pigrizia, non anticapitalismo.
La ferita morale alla quale fa riferimento Coin quando parla di realizzazione è la stessa che la Gen Z ha medicato nella propria cameretta, durante una lezione scolastica su Teams. E ha scelto che se ne sarebbe ricordata al momento opportuno; quando le porte (mai aperte) del mondo del lavoro fossero rimaste chiuse, al suo arrivo.
Equilibrio tra lavoro e vita privata, retribuzione equa e allineamento dei valori aziendali ai propri: ecco alcuni dei fattori che si trovano alla base della sottrazione volontaria dei più giovani.
*
Fonti
Coin, F. (2023) Le Grandi Dimissioni, Einaudi, Torino.
Sitografia
Washington Post
Forbes
Cbs News
BBC
OliverWyman Forum
NetSuite
SCMP Group
Romolo Capuano
Pandora Rivista
Sociologicamente