Scuro Chiaro

Da dove partire

Prendiamo Sulla strada di Kerouac. Non ha davvero importanza che l’abbiate letto o meno: probabilmente è bastato il titolo per catapultarvi in un mondo narrativo fatto di stradoni polverosi di cui non vedi la fine, insegne malandate di motel da quattro soldi, cactus giganti sparpagliati qua e là. Siamo sulla mitica Route 66: sentiamo il caldo sulla pelle, la musica jazz anni Cinquanta dalla radio dell’auto che stiamo guidando, l’odore di gasolio a un distributore in mezzo al nulla. Eccolo qui, netto e inconfondibile, l’immaginario che, da costa a costa, racconta ancora oggi un’intera nazione: gli Stati Uniti d’America.

“Ogni cunetta, rialzo o rettilineo suscitavano ingannevoli desideri. Attraversammo in New Mexico nella notte d’inchiostro; nell’alba grigia apparve Dalhart, Texas; nel tetro pomeriggio della domenica ci lasciammo alle spalle una dopo l’altra le cittadine di pianura dell’Oklahoma; al cader della notte eravamo nel Kansas.”

Questo potere di evocare mondi, di costruire immaginari condivisi che si fanno ponte tra il reale e il possibile, è il cuore del world building. Un’arte che, se da un lato è protagonista della narrativa e delle produzioni culturali, dall’altro trova un’applicazione strategica e visionaria nei Futures Studies. Ma cos’è il world building se non l’abilità di progettare mondi coerenti, credibili, e immersivi? Mondi che ci permettono non solo di immaginare ma di sperimentare realtà alternative, esplorando futuri possibili e desiderabili.

Nel momento in cui chiudiamo gli occhi e lasciamo che un frammento di narrazione – come un titolo o una descrizione – ci conduca altrove, stiamo entrando in un campo dove l’immaginazione diventa uno strumento di analisi. È qui che il world building si intreccia con i Futures Studies: entrambi si fondano su un principio di esplorazione, sul desiderio di rompere i confini del “qui e ora” per indagare il “là e poi”. I mondi che costruiamo non sono mai fini a se stessi, ma servono a riflettere sulle possibilità, sui rischi e sulle scelte che modellano il nostro domani.

In questo senso, il world building non è solo narrazione. È metodo, processo, e visione. Attraverso la costruzione di scenari, gli studi sui futuri usano questa pratica per dare forma a futuri plurali e complessi, dove ogni dettaglio – dall’odore del gasolio alle note di un jazz immaginario – contribuisce a rendere il possibile più vicino e il desiderabile più concreto. E proprio come Kerouac, anche noi siamo sulla strada: una strada che, nel caso dei Futures Studies, non è ancora scritta, ma deve essere immaginata e co-costruita.

Come nasce la tecnica

Ora, facciamo un salto indietro nel tempo. È il dicembre del 1820 quando, sulla rivista culturale Edinburgh Review, appare per la prima volta il termine world-building, letteralmente “costruzione di mondo”. In quell’occasione si riferiva alla creazione di universi ipotetici con leggi fisiche diverse da quelle della nostra Terra. Un’idea rivoluzionaria, che trovò terreno fertile nella fantascienza e nella letteratura fantasy. Perché costruire mondi non significa solo disegnare mappe o immaginare creature fantastiche: significa stabilire un insieme coerente di regole e dettagli che diano vita a un intero ecosistema narrativo.

Pensate ai mondi che conoscete, anche quelli inventati: Hogwarts, dove Harry Potter apprende le arti magiche; il Paese delle Meraviglie attraversato da Alice; la Galassia sconfinata di Star Wars; e Arda, la cornice immensa che ospita la Terra di Mezzo nel Signore degli Anelli. Sono territori immaginari, ma così coerenti e dettagliati da sembrare reali. Si tratta di mondi che non solo ci affascinano, ma che ci accolgono e ci fanno sentire parte di essi, quasi fossimo abitanti temporanei.

“Dopo un bel po’ di tempo attraversarono l’Acqua, a ovest di Hobbiville, su uno stretto ponticello di tavole. In quel punto il corso non era che un nastro nero e contorto, orlato da ontani scuri. Qualche miglio più a sud, attraversarono veloci la grande strada del Ponte sul Brandivino; erano giunti in Tuclandia. Voltarono verso sud-est in direzione del Paese dalle Verdi Colline. Quando ebbero percorso i primi passi di salita, si voltarono per vedere le luci di Hobbiville brillare in lontananza nella dolce valle dell’Acqua.”

L’applicazione nel racconto dei brand

Se inizialmente il termine world-building era nato per definire ogni creazione di fiction, principalmente letteraria e cinematografica, negli ultimi decenni la sua applicazione si è estesa a un altro importante campo: quello della narrazione dei brand. Sì, anche le marche costruiscono mondi. Pensateci: i campi di grano assolati e la famiglia che vive al Mulino Bianco; la barca a vela che solca mari limpidi con Capitan Findus al timone; il paradiso accogliente di Lavazza.

Ogni brand racconta una storia che non si limita a descrivere il prodotto, ma crea un intero universo di riferimento, fatto di luoghi, persone, situazioni e atmosfere. È un modo per immergervi in un’esperienza che va oltre l’oggetto in vendita: è un invito a entrare in un mondo che diventa immediatamente riconoscibile e, in molti casi, memorabile.

Alcuni di questi mondi narrativi rimangono saldamente ancorati alla realtà. Altri, invece, si spingono verso il fantastico, creando universi che sfidano la logica ma che funzionano alla perfezione per catturare l’immaginazione. Pensate alla celebre marmotta di Milka che “confeziona la cioccolata”: un’immagine surreale, certo, ma che comunica in modo chiaro un senso di artigianalità e dolcezza. Oppure ricordate le particelle di sodio parlanti di Acqua Lete, che con il loro approccio giocoso trasformano un elemento chimico in un personaggio simpatico.

In entrambi i casi, ciò che conta non è la veridicità di ciò che viene mostrato, ma la coerenza e l’identità del mondo che viene costruito. Ogni dettaglio – dal tono delle voci alla palette di colori, dal design degli ambienti ai messaggi veicolati – è studiato per creare un universo che sia al tempo stesso unico e facilmente riconoscibile.

La riscrittura della cultura popolare

Ci sono poi casi speciali, in cui il world-building di un brand diventa così potente da riscrivere addirittura immaginari consolidati nella cultura popolare. Uno degli esempi più emblematici è quello di Babbo Natale. Prima degli anni Trenta, nella tradizione occidentale, San Nicola veniva raffigurato con abiti verdi o marroni. Poi arriva Coca-Cola, che non si limita a reinterpretare il personaggio, ma lo reinventa completamente: Babbo Natale veste di rosso, con una tonalità perfettamente coordinata a quella del marchio. L’impatto di questa operazione è stato tale da sovrascrivere decenni di tradizione: oggi, nessuno metterebbe in dubbio che Babbo Natale abbia sempre avuto quel caratteristico completo rosso.

Sul sito web viene raccontato così l’aneddoto:

“Il Babbo Natale che tutti conosciamo e amiamo – quell’omone allegro con il vestito rosso e la barba bianca – non è sempre stato così. Prima del 1931, infatti, Babbo Natale era raffigurato in molti modi: ora come un uomo alto e magro, ora come un elfo dall’aria spettrale. Indossava la veste di un vescovo e la pelle d’animale tipica di un cacciatore norvegese […] La gente amava le immagini di Babbo Natale di Coca-Cola ed era così attenta che, quando qualcosa cambiava, scriveva a The Coca-Cola Company delle lettere di protesta. Un anno, il cinturone di Babbo Natale era al rovescio (forse perché Sundblom disegnava allo specchio). Un’altra volta, Babbo Natale apparve senza anello nuziale, così i fan scrissero per chiedere cosa fosse successo alla moglie.”

Prendere posto accanto al narratore

Campi di lavanda, e vi ritrovate in Provenza. Cornamuse, ed eccovi in Scozia. Pareti di azulejos, ed ora siete in Portogallo. In pochi istanti avete fatto tre viaggi, magari senza esserci mai stati. È un fenomeno straordinario, che accade perché, di queste regioni, condividiamo un immaginario comune. Film e serie tv, cartoline, foto di amici sui social: fin da piccoli raccogliamo immagini e suggestioni, costruendo una sorta di geografia mentale che ci consente di visitare luoghi lontani con il semplice potere dell’immaginazione.

Pensate a come, attraverso le copertine dei libri o i racconti di un autore, prendono forma scenari vividi che ci sembrano familiari anche se non li abbiamo mai visti con i nostri occhi. Ma questo non è un dono riservato solo ai narratori: è qualcosa che tutti sperimentiamo e di cui, spesso senza rendercene conto, siamo anche creatori.

Se nella narrativa questa pratica serve a creare universi per raccontare storie, nei Futures Studies diventa un metodo per immaginare e progettare futuri. È un passaggio potente: dalle pagine di un libro o dallo schermo di un film, il world building si sposta al centro di processi decisionali e riflessioni strategiche. Ma come funziona, concretamente? Costruire mondi nei Futures Studies significa partire dall’immaginazione per creare scenari futuri che possano guidare il presente. Si tratta di sviluppare visioni alternative della realtà, esplorando possibilità che spesso ignoriamo o sottovalutiamo. Per farlo, si usano strumenti simili a quelli del narratore: dettagli concreti, coerenza interna, e una geografia che ci consenta di orientarci.

Immaginate, ad esempio, di progettare una città futura: quali saranno le sue priorità? La sostenibilità? La tecnologia? Oppure la riconnessione con la natura? Ogni scelta che fate, ogni elemento che aggiungete, contribuisce a creare un mondo credibile e abitabile, capace di stimolare riflessioni, discussioni, e decisioni.

Costruire una “bibbia” di mondi futuri, possibili o assurdi, è un esercizio complesso ma affascinante, che richiede di combinare creatività, coerenza e attenzione ai dettagli. La “bibbia” – termine mutuato dal mondo del cinema e delle serie tv per indicare un documento di riferimento che descrive ogni aspetto di un universo narrativo – è uno strumento fondamentale per garantire che il mondo immaginato sia credibile e immersivo.

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