Scuro Chiaro

Ammettiamolo: è successo a tutti almeno una volta. Seduti al bar, sul balcone di casa o in una sala d’attesa, ci siamo ritrovati a osservare il viavai delle persone intorno a noi, incuriositi dai loro gesti, talvolta buffi o addirittura inspiegabili. In contesti più raccolti, come un viaggio in metropolitana, ci capita di ascoltare frammenti delle loro conversazioni e di decifrare le espressioni sui loro volti. Senza accorgercene, proviamo a capire chi ci circonda, quasi come un bambino che esplora il mondo.

L’antropologia e la sociologia, discipline che studiano rispettivamente l’uomo e la società, rientrano nell’ambito delle scienze umane. Per raccontare ciò che osservano, entrambe utilizzano un metodo comune: la ricerca etnografica. Questo approccio implica un’immersione diretta sul campo per raccogliere dati su un gruppo sociale, esplorandone la cultura, i comportamenti, i valori e le credenze. Fare etnografia significa entrare nel contesto naturale del gruppo, osservare, prendere appunti e documentare ogni elemento che possa contribuire a comprendere la loro realtà: dai rituali e usi quotidiani, fino alle norme sociali e ai codici linguistici.

La parola “etnografia” deriva dal greco antico: ethnos (έθνος), che significa ‘popolo’, e grapho (γράφω), ‘scrivo’. In altre parole, fare etnografia significa letteralmente “scrivere su un popolo”. Il termine appare per la prima volta nel 1767 in un’opera dello storico tedesco Johann Friedrich Schöpperlin, in un periodo non a caso segnato dall’entusiasmo dell’Illuminismo per la classificazione e la comprensione della realtà umana.

Dal precursore Erodoto in poi

Come è facile intuire, l’etnografia affonda le sue radici ben più in profondità rispetto alla definizione moderna. Basti pensare a Erodoto, che già nel V secolo a.C., con le sue Storie, conduceva una vera e propria indagine sulle popolazioni allora conosciute, spaziando tra l’Asia occidentale, l’Africa settentrionale e la Grecia. Ciò che ancora oggi sorprende sono le sue digressioni etnografiche sui cosiddetti “barbari”: osservati da vicino, senza pregiudizi, e descritti con una sorprendente attenzione ai dettagli, attraverso vivaci parentesi narrative.

“Quando si incontrano fra loro per strada, da questo si può riconoscere se quelli che si incontrano sono di pari grado: invece di rivolgersi l’un l’altro parole di saluto si baciano sulla bocca. Se invece l’uno è di poco inferiore si baciano sulle guance; se poi uno è molto meno nobile inginocchiandosi si prosterna dinanzi all’altro.”

È come una fotografia nitida, giunta fino a noi attraverso i secoli, scattata da chi si è immerso in quelle realtà lontane. Leggere questo tipo di racconto è come salire a bordo della mitica DeLorean di Ritorno al Futuro e venire catapultati indietro nel tempo. In fin dei conti, l’etnografia è un viaggio attraverso il tempo e lo spazio, che ci permette di esplorare culture lontane e momenti passati.

Pensiamo a Gerhard Friedrich Müller, considerato il padre dell’etnografia. Nella prima metà del Settecento, si avventurò oltre gli Urali, verso l’estremo oriente, per studiare i gruppi etnici della Siberia. Müller ne descrisse dettagliatamente l’abbigliamento e, allo stesso tempo, raccolse preziose informazioni per le carte geografiche dell’epoca. O consideriamo Franz Boas, celebre antropologo tra Ottocento e Novecento, che dedicò la sua vita allo studio delle lingue dei nativi nordamericani. Pubblicò un’opera monumentale sulla loro grammatica, sottolineando l’intima connessione tra lingua e cultura: per Boas, la comprensione di una cultura passava necessariamente attraverso la conoscenza della sua lingua.

Un altro esempio è quello di Bronisław Kaspar Malinowski, che durante la Prima guerra mondiale trascorse due anni nelle Isole Trobriand in Melanesia, osservando da vicino le pratiche di baratto degli indigeni. Studiò con curiosità lo scambio rituale di doni e gli intricati legami di fiducia reciproca, simboleggiati da collane di conchiglie rosse e braccialetti di conchiglie bianche.

Un salto fino agli anni Novanta

Nel 1993 il sociologo Howard Rheingold, con la pubblicazione di The Virtual Community: Homesteading on the Electronic Frontier, introduce il concetto di comunità virtuale, rendendolo universale. Con la crescente diffusione della Rete, le persone non si limitano più a utilizzarla per cercare o condividere informazioni, ma imparano a conoscersi, comunicano e scambiano esperienze, tutto attraverso una tastiera e uno schermo. Anche senza essersi mai incontrati di persona, formano veri e propri gruppi online. Insomma, non ci sono solo tribù nascoste nel cuore dell’Amazzonia da scoprire, ma anche nuove comunità che nascono nel vasto mondo digitale. In un’intervista pubblicata nell’archivio Rai MediaMente, Rheingold spiega come le comunità virtuali si differenzino da quelle reali:

“Il vantaggio delle comunità virtuali è nel poter incontrare persone che dividono i nostri stessi interessi, anche se questi ultimi sono singolari, e, normalmente, di difficile condivisione, come l’interesse all’allevamento di una razza canina rara, per esempio. […] Uno dei vantaggi di Internet è che non si deve essere perennemente collegati per conversare; tramite l’utilizzo della bacheca si può lasciare un messaggio e tornarci più tardi per controllare le risposte. Alcune conversazioni durano settimane o mesi, addirittura anni; in questo “luogo” si trascendono tempo e spazio, poiché non si deve essere tutti collegati contemporaneamente e nello stesso posto. Inoltre, molti pregiudizi cadono poiché non necessariamente si conosce l’età o il sesso o, ancora, l’appartenenza a una cultura dell’interlocutore. […] Le persone più timide che non riescono ad intervenire in un gruppo e hanno difficoltà a partecipare alla conversazione, o che hanno bisogno di tempo per riflettere, trovano nelle comunità virtuali un “luogo” dove sono ascoltati in un modo impossibile altrove, il che diminuisce l’inibizione, che impedisce, normalmente, la partecipazione alla conversazione.”

Sono trascorsi più di venticinque anni, ma la riflessione di Rheingold è ancora estremamente attuale, sebbene vada riletta con una prospettiva più aggiornata. È importante ricordare che in quel periodo le connessioni stavano espandendosi a ritmi vertiginosi: l’attenzione cominciava a spostarsi dal rapporto tra essere umano e macchina a quello tra esseri umani mediato dalla macchina. In questo contesto emerge una nuova generazione di accademici interessati ai cosiddetti Cyberculture Studies, tra cui spicca Sherry Turkle. Nel 1995, Turkle pubblica Life on the Screen: Identity in the Age of Internet, uno studio etnografico sugli ambienti virtuali. Il suo lavoro esplora la relazione tra l’uomo e la tecnologia, concentrandosi su come quest’ultima plasmi il nostro modo di pensare e di interagire nella vita online, un mondo caratterizzato da una velocità e una molteplicità di esperienze senza precedenti.

E infine, è arrivato Kozinets

E arriviamo a Robert Kozinets, docente universitario e studioso di marketing tribale e della Consumer Culture Theory, considerato una delle voci più influenti nel campo dei social media, del marketing e dell’innovazione. Ma, soprattutto, è il creatore del metodo di ricerca noto come netnography (netnografia), un neologismo che unisce “net”, cioè “Rete”, ed “etnografia”. Nel corso del tempo sono emersi altri termini che ruotano attorno al medesimo concetto, come etnografia virtuale (Hine, 2000), etnografia di Internet (Miller e Slater, 2001), etnografia della rete (Howard, 2002), fino a giungere a etnografia digitale (Murty, 2008).

Kozinets, nel suo Netnography (pubblicato nel 2009 e aggiornato sei anni dopo con Netnography: Redefined), evidenzia quanto sia cruciale l’adattamento del metodo etnografico al contesto digitale per comprendere la complessità del mondo contemporaneo. La netnografia consente di raccogliere informazioni sulle comunità online attraverso l’immersione del ricercatore nelle conversazioni virtuali tra persone reali. In altre parole, questa disciplina trasporta su Internet i tradizionali metodi etnografici, dall’osservazione diretta alla descrizione delle pratiche sociali. In sintesi, lo studioso non osserva più le persone nascosto dietro un cespuglio, ma si mimetizza all’interno di un gruppo chiuso su Facebook.

Cambia lo scenario, ma le regole restano le stesse.

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