Scuro Chiaro

Un insight culturale rappresenta una comprensione profonda e specifica che abbiamo su una o più persone, basata sulle loro esigenze, comportamenti, motivazioni o desideri. È uno strumento prezioso che ci consente di instaurare una connessione autentica e significativa con l’altro, superando la superficie delle semplici interazioni quotidiane. Nel contesto del marketing e della comunicazione, un insight permette a un brand di emergere come rilevante agli occhi del proprio pubblico, non solo catturandone l’attenzione, ma anche coinvolgendolo emotivamente.

Possiamo pensare all’insight come a ciò che accade nelle relazioni personali: più dettagli conosciamo sul nostro interlocutore, più riusciamo a costruire un rapporto profondo e autentico, andando oltre le classiche chiacchiere di circostanza, come parlare del tempo. Ad esempio, se so che la mia vicina di casa vive da sola e ha difficoltà motorie, potrei offrirle il mio aiuto per fare la spesa. Questa piccola attenzione nasce dalla consapevolezza di un suo bisogno reale e dimostra la capacità di creare un legame più profondo rispetto a una semplice conversazione.

Analogamente, nel mondo dei brand, conoscere ciò che muove il pubblico diventa fondamentale per stabilire una connessione che vada oltre la transazione economica. Se, per esempio, un’azienda produce porte blindate, non dovrebbe limitarsi a presentare le caratteristiche tecniche del prodotto, ma dovrebbe indagare a fondo le ragioni emotive e psicologiche che spingono le persone a desiderare maggiore sicurezza. Solo comprendendo queste motivazioni si può creare una narrazione che risuoni davvero con le paure e i desideri del pubblico.

Un insight, quindi, non è solo una scoperta casuale, ma il frutto di un ascolto attento e di un’analisi approfondita. È ciò che permette di trasformare una comunicazione generica in una storia rilevante e mirata, che parla direttamente ai bisogni e ai sentimenti delle persone. Solo attraverso questa comprensione possiamo creare contenuti che abbiano un impatto emotivo, rendendo il brand non solo visibile, ma anche memorabile e rilevante nella vita del suo pubblico.

Proponiamo qui un modello che prevede sei livelli di conoscenza, ordinati dal più superficiale al più profondo. Ogni livello rappresenta un gradino verso una comprensione più ricca e dettagliata delle persone, consentendo a un brand di comunicare in modo sempre più mirato e rilevante.

Primo livello: gesti, immagini, simboli

Il primo livello di conoscenza riguarda la nostra fisicità, i gesti più semplici e istintivi che compiamo con il corpo e le mani, sia nel mondo reale che in quello digitale. Sono le piccole abitudini quotidiane, spesso inconsapevoli, che rivelano molto del nostro modo di vivere e interagire con gli oggetti o i prodotti. Questi gesti rappresentano il punto di partenza, la superficie del comportamento umano, ma proprio perché sono così immediati e universali, possono risultare incredibilmente potenti quando vengono colti e sfruttati in modo creativo.

Molte campagne pubblicitarie di successo hanno giocato proprio su queste piccole conoscenze, utilizzando piccoli gesti come base per costruire messaggi memorabili e capaci di entrare in risonanza con il pubblico. Un esempio iconico è il celebre claim di Fonzies: “Se non ti lecchi le dita godi solo a metà”. Questo slogan, con le sue dieci parole semplici ma efficaci, è riuscito a imprimersi nell’immaginario collettivo, segnando la storia della pubblicità.

Perché ha funzionato così bene? Perché si basava su un insight superficiale, ma allo stesso tempo universale e profondo: quando qualcosa ci piace davvero tanto, siamo disposti a superare piccole barriere sociali o estetiche, come quella di leccarci le dita, pur di prolungare l’esperienza di piacere. In questo caso, l’azione del leccarsi le dita diventa un simbolo di quanto quel cibo sia irresistibile, tanto da farci dimenticare il “bon ton”. Nel linguaggio comune, infatti, il gesto di “leccarsi le dita” è spesso usato per esprimere un piacere intenso legato al cibo, e lo stesso concetto si estende anche a esperienze che, pur non essendo legate al gusto, risultano estremamente gratificanti.

Tale associazione tra il gesto fisico e la soddisfazione profonda è facilmente riconoscibile da chiunque. Anche chi si sente più lontano dal gesto di leccarsi le dita può trovarvi un’eco emotiva. Il successo dello spot di Fonzies deriva proprio da questa capacità di trasformare un comportamento semplice in un simbolo di piacere, costruendo un dialogo immediato con il pubblico. Alla fine, il leccarsi le dita è un gesto universale, associato alla golosità. Quanti di noi, spontaneamente, non l’hanno mai fatto dopo aver mangiato una manciata di patatine o un altro cibo gustoso? Il semplice atto diventa un insight che, pur essendo di primo livello, quindi superficiale, riesce a innescare una connessione emotiva forte e diretta con le persone, perché parla del piacere in modo viscerale e autentico.

Secondo livello: quotidiano, abitudini, riti

Il secondo livello di insight riguarda la nostra quotidianità: abitudini, routine, e il bagaglio di esperienze che accumuliamo nel corso del tempo. Qui entra in gioco la nostra vita di tutti i giorni, fatta di piccoli rituali che seguiamo inconsciamente e di scelte pratiche che influenzano il nostro comportamento. Questo livello scava più a fondo rispetto al primo, perché include sia le esperienze passate che le consuetudini radicate nel nostro stile di vita.

Da un lato, ci sono le esperienze che ci hanno insegnato delle lezioni concrete: se prendiamo un treno senza biglietto, sappiamo che rischiamo una multa; se soffriamo di mal di schiena, evitiamo di sollevare pesi. Questi sono insegnamenti pratici che derivano da errori, osservazioni o regole sociali che abbiamo appreso nel tempo. Sono comportamenti prevedibili, quasi automatici, dettati dal buon senso o dalla necessità di evitare situazioni negative.

Dall’altro lato, ci sono le nostre abitudini, spesso ereditate dalla famiglia, legate al nostro carattere o frutto di scelte personali. Questi comportamenti sono ripetitivi, quasi rituali, e modellano il nostro modo di vivere. Alcuni esempi? Non fare il bagno in mare subito dopo aver mangiato (per paura del classico “blocco digestivo”), oppure preferire fare la doccia prima di dormire anziché al mattino. Sono piccoli gesti che fanno parte della nostra routine e che, per quanto possano sembrare irrilevanti, influenzano il nostro comportamento quotidiano.

Secondo uno studio pubblicato sul British Journal of General Practice, le abitudini durature impiegano in media 66 giorni per formarsi e diventare parte integrante del nostro stile di vita, anche quando le condizioni che le hanno create non esistono più. Un esempio è quello delle nuove abitudini legate alla pandemia: indossare la mascherina, lavarsi frequentemente le mani, mantenere il distanziamento sociale. Anche se l’emergenza sanitaria si è via via affievolita, molti di questi comportamenti sono rimasti impressi a lungo nelle nostre routine quotidiane.

Non sono solo grandi eventi come una pandemia a influenzare le nostre abitudini. Pensiamo ai servizi di streaming, che hanno cambiato il nostro modo di consumare cibo. Ora, guardare un film o una serie TV sul divano è spesso accompagnato da uno spuntino o un pasto, trasformando il salotto in una sorta di secondo tavolo da pranzo. Anche prima, l’introduzione delle cucine open space nella cultura occidentale ha cambiato il modo in cui interagiamo con il cibo e gli elettrodomestici: la televisione è entrata in cucina, facendo compagnia mentre cuciniamo. In parallelo, l’ascesa dei servizi di consegna a domicilio ha modificato ulteriormente le nostre abitudini alimentari. Con la crescente popolarità del cibo d’asporto, sempre più persone preferiscono ordinare piuttosto che cucinare, contribuendo a una sorta di “esternalizzazione” della preparazione del cibo.

Anche i social media hanno avuto un impatto importante su questo livello di insight. Il fenomeno #foodporn su Instagram ne è un esempio lampante: vediamo immagini di cibo esteticamente perfetto che stimolano il nostro desiderio di mangiare. L’espressione “mangiare con gli occhi” ha trovato una nuova dimensione nell’era digitale, in cui il cibo è diventato uno spettacolo visivo tanto quanto una necessità. Allo stesso modo, i programmi televisivi di cucina come MasterChef o 4 Ristoranti non solo influenzano il nostro rapporto con il cibo, ma ci portano anche a vedere il mangiare come un’esperienza intrattenitiva.

Infine, anche ciò che guardiamo influenza il nostro ritmo alimentare. Gli studi dimostrano che la visione di film d’azione ci porta a mangiare più velocemente, mentre contenuti più rilassanti favoriscono un consumo più lento e misurato. Ciò mostra come le abitudini e i comportamenti quotidiani, pur essendo parte della nostra vita ordinaria, siano influenzati costantemente dall’ambiente che ci circonda, dai media e dalle esperienze accumulate nel tempo.

Terzo livello: valori, credenze, pregiudizi

Il terzo livello di conoscenza si concentra su pregiudizi, luoghi comuni, credenze, fedi, tabù e superstizioni. Questi elementi sono profondamente radicati nelle nostre convinzioni culturali e sociali, e cambiarli richiede un lavoro ben più lungo di quanto serva per formare una semplice abitudine. Spesso, sono credenze trasmesse di generazione in generazione, così radicate da influenzare profondamente il modo in cui vediamo il mondo e prendiamo decisioni.

Un esempio interessante riguarda le pubblicità del diciannovesimo secolo per i cosiddetti “massaggiatori personali”. In quegli annunci, le protagoniste erano donne che stringevano oggetti robusti e sorridevano, con la promessa di migliorare il proprio benessere generale, dal sollievo dal mal di testa fino a una pelle più luminosa. Sebbene non ci fossero riferimenti espliciti alla sessualità, molti erano consapevoli del vero uso di quei dispositivi, destinati alla masturbazione femminile. Tuttavia, questo argomento era considerato un tabù e non veniva mai discusso apertamente. Nonostante i progressi, parlare di masturbazione femminile è ancora oggi difficile in certi contesti, soprattutto a causa di pregiudizi e stigmatizzazioni. Negli ultimi decenni, però, l’atteggiamento nei confronti del corpo femminile è notevolmente cambiato, grazie anche all’avvento della tecnologia e di Internet. Questi strumenti hanno permesso di dare visibilità mainstream a tematiche che un tempo erano stigmatizzate, come l’esercizio del pavimento pelvico, il controllo delle vampate di calore e, infine, l’auto-stimolazione per raggiungere l’orgasmo.

In questo contesto si inserisce la cosiddetta FemTech (Female Technology), un mercato in forte espansione che si concentra sulla salute femminile, inclusi gli aspetti legati al sesso e alla sessualità. La FemTech non riguarda solo la tecnologia, ma è anche parte di un più ampio movimento di emancipazione femminile. Negli ultimi anni, movimenti come #MeToo, #LeanIn e The Women’s March hanno messo in luce l’importanza dell’autonomia fisica e psicologica delle donne, coinvolgendo milioni di persone in tutto il mondo.

L’innovazione tecnologica e l’apertura di nuovi canali di dialogo sociale hanno contribuito a rompere i tabù sul corpo femminile, offrendo soluzioni a problematiche che per lungo tempo erano state ignorate. Ad esempio, oggi esistono app mobile che tracciano il ciclo mestruale e la temperatura basale, utilizzate come metodi contraccettivi o per aiutare le donne a monitorare la loro fertilità. Tali strumenti hanno dato alle donne una maggiore consapevolezza e controllo sul loro corpo, rompendo tabù che per anni avevano limitato il dibattito pubblico su tali questioni.

Il terzo livello di conoscenza ci mostra, dunque, come i pregiudizi e le credenze siano più resistenti al cambiamento, ma anche quanto sia importante metterli in discussione per aprire nuove possibilità di dialogo. La tecnologia e i movimenti sociali contemporanei stanno facendo proprio questo: sfidano credenze radicate, trasformano vecchi tabù in nuove discussioni aperte, e permettono alle donne di prendere il controllo della propria salute e sessualità. Aiutare a scardinare pregiudizi o a rompere i tabù può significare creare connessioni più forti, rilevanti e durature, che vanno oltre il semplice consumo di prodotti o servizi.

Quarto livello: emozioni, percezioni

Man mano che ci addentriamo nei vari livelli di conoscenza che possiamo raccogliere sulle persone attraverso i piccoli dettagli, scopriamo che gli small data non operano in modo isolato, ma sono spesso concatenati. Ogni insight si collega al successivo, creando una rete di informazioni che permette una comprensione sempre più profonda dell’individuo. Il quarto livello di insight rappresenta l’ultimo stadio che rimane nella sfera individuale e va a toccare uno degli aspetti più primordiali dell’essere umano: le emozioni.

Le emozioni sono un territorio complesso e profondo, radicato nelle esperienze personali ma anche nelle strutture biologiche e culturali che ci portiamo dietro da millenni. Riconoscere le sfumature delle emozioni è un’abilità cruciale per chi studia small data, perché ci consente di connetterci con la parte più intima e viscerale delle persone. È un livello che richiede empatia e capacità di osservazione, perché le emozioni spesso si manifestano in modi sottili e non sempre espliciti. Questo livello di insight non riguarda solo l’identificazione di emozioni di base come gioia, tristezza o paura, ma anche la comprensione delle variazioni e delle sfumature che accompagnano queste emozioni. Un brand che riesce a riconoscere e rispondere a queste sensazioni profonde, si posiziona come un interlocutore autentico, capace di instaurare un rapporto più empatico e duraturo con il proprio pubblico.

Prendiamo, per esempio, l’ansia e l’insicurezza che molte persone provano in situazioni sociali o nella vita lavorativa. Un prodotto o un servizio che riesca a intercettare queste emozioni può offrire soluzioni mirate che non si limitano a soddisfare un bisogno funzionale, ma agiscono sul piano emotivo, alleviando ansie o paure. Allo stesso modo, una campagna pubblicitaria che riesca a evocare una sensazione di calore e conforto, come un ritorno a casa o un abbraccio familiare, può creare una connessione emotiva molto più potente rispetto a una che si limita a descrivere i benefici del prodotto. Scavare in profondità nelle emozioni delle persone, però, richiede delicatezza. Le emozioni sono legate alle esperienze personali, ai traumi, ai desideri nascosti. Per questo, chi lavora con gli small data deve avere la capacità di leggere tra le righe e comprendere i contesti in cui le emozioni si manifestano. Sfruttare questo insight in modo superficiale o manipolatorio può facilmente alienare il pubblico.

Le emozioni sono infatti legate non solo ai momenti vissuti individualmente, ma anche alle storie collettive, alle tradizioni culturali e persino agli archetipi ancestrali che tutti condividiamo. La paura dell’ignoto, il desiderio di appartenenza, la necessità di essere compresi: sono tutte emozioni che, se ben riconosciute, possono trasformarsi in leve potenti per la creazione di connessioni autentiche. Per esempio, a pochi giorni dalla fine della fase 1 dell’emergenza sanitaria della primavera 2020 in Italia, l’autore Davide Coppo, su un pezzo di Rivista Studio, descriveva così una nuova emozione che stava riguardando tante persone:

“È un desiderio taciuto e poco razionale che riguarda, probabilmente, chi è riuscito a vivere la quarantena in solitaria, scoprendo un nuovo equilibrio, riuscendo ad adattarcisi e a trovarcisi inaspettatamente comodo. Non ha per forza di cose a che fare con l’introversione, questa volontà di non dover uscire subito: anzi, il lockdown come paradiso degli introversi è stata un’Arcadia presto smentita dai suonatori di piatti delle 12, dagli aperitivi su Facetime, dalle riunioni su Zoom ancora più frequenti di quelle già mitraglianti in carne e ossa del mondo prima. Rompere la quarantena, mi sembra, è come dover uscire da una vasca da bagno quando l’acqua è ancora piacevolmente calda. Come dover finire in fretta e furia un piatto che era appena stato servito.”

Il motivo principale dietro alle diverse reazioni è la differenza sul modo in cui estroversi e introversi prendono la loro energia. In generale, i primi si sentono energizzati dagli ambienti; i secondi, invece, trascorrendo del tempo da soli o in piccoli gruppi di persone che già conoscono. Tutto ciò ci suggerisce che, mentre gli introversi hanno il desiderio di socializzare e prendere parte ad attività ricreative e di intrattenimento, i desideri e bisogni differiscono drasticamente per chi preferisce una vita nella propria comfort zone. Per fortuna, ci sono l’ironia (e l’autoironia): basta dare un’occhiata ad account Instagram come @introvertstruggles e @introvertdoodles, che hanno saputo creare un senso di comunità online condividendo contenuti sulle difficoltà di essere un introverso in un mondo (apparentemente) pieno di estroversi.

Alcuni brand avevano già intercettato questo insight profondo. Uber offre agli utenti la possibilità di selezionare la modalità silenziosa per i loro viaggi, che avvisa i conducenti che il passeggero non ha voglia di chiacchierare; la catena ICHIRAN, che ha ristoranti di ramen in Giappone e negli Stati Uniti, offre cabine da pranzo individuali per eliminare il rumore e concentrarsi sul cibo. È dunque possibile che, a prescindere dal Covid, aumentino anche i servizi su misura per la pace e la tranquillità delle persone, e non solo per una questione di distanziamento fisico. Pensiamo al sollievo di non dover più firmare all’arrivo di un pacco, alla consegna della spesa sul pianerottolo, alla facilità con cui si può fare l’asporto in locali che prima non prevedevano questa opzione.

Quinto livello: tensioni culturali

Il quinto (così come il sesto e ultimo livello) di insight ci porta fuori dalla sfera individuale per esplorare una dimensione collettiva: le tensioni sociali. Mentre i gesti, le esperienze quotidiane, le credenze e le emozioni appartengono al singolo, le tensioni riguardano la società in cui viviamo e si manifestano come forze che influenzano la collettività in modi profondi e talvolta imprevedibili.

In fisica, la tensione si riferisce a uno stato in cui forze opposte tirano qualcosa da due estremi, sollecitando ciò che si trova nel mezzo. Nella società, le tensioni funzionano in modo simile: rappresentano questioni che emergono e si scontrano in varie direzioni, sollecitando il dibattito pubblico e portando alla luce conflitti o necessità latenti. Queste tensioni sociali possono essere viste come perturbazioni meteorologiche che attraversano i territori digitali. Alcune sono semplici nubi che restano sospese, pronte a scatenarsi, altre sono vere e proprie tempeste che esplodono all’improvviso, in grado di travolgere il dibattito pubblico.

Alcune tensioni, come la lotta per la parità di genere, sono cicliche: rimangono costantemente sullo sfondo della discussione sociale, pronte a essere riattivate da un singolo evento o da un’ondata di attivismo. Ad esempio, il movimento #MeToo ha scosso il mondo intero, trasformando una tensione latente in un dibattito globale sul sessismo e le molestie. Altre tensioni sono più recenti, come la crescente consapevolezza ambientale e la lotta contro l’uso incontrollato della plastica usa e getta, che sta portando a cambiamenti nel comportamento dei consumatori e nella regolamentazione.

Per le aziende e i brand, essere consapevoli delle tensioni sociali non è più un’opzione, ma una necessità. In passato, si diceva che “il sesso vendeva”; oggi, il nuovo mantra del marketing è la sostenibilità. Le aspettative del pubblico si sono evolute, e le persone ora si aspettano che le aziende prendano posizione e contribuiscano attivamente a risolvere i problemi sociali e ambientali. I grandi marchi hanno compreso l’importanza di essere parte attiva nel rispondere a queste tensioni. Levi Strauss, ad esempio, ha adottato una strategia concreta per ridurre il proprio impatto ambientale, puntando all’uso del 100% di energia rinnovabile e a una riduzione del 90% delle emissioni di gas serra entro il 2025. Questa scelta non solo risponde a una tensione sociale incentrata sulla sostenibilità, ma evita anche le accuse di “greenwashing”, che spesso colpiscono i brand che promuovono un’immagine di sostenibilità senza azioni reali e misurabili.

Le tensioni sociali, dunque, non sono solo sfide, ma anche opportunità. I brand che riescono a comprendere e a rispondere in modo autentico e trasparente a queste tensioni hanno la possibilità di costruire un rapporto di fiducia e vicinanza con il proprio pubblico. Tuttavia, farlo richiede impegno reale e coerente: le persone sono sempre più consapevoli e pronte a smascherare le false promesse o le campagne di marketing ipocrite.

Sesto livello: influenza generazionale

Il sesto e ultimo livello di insight riguarda un tema imprescindibile: le generazioni. Attualmente, nel mondo coesistono ben sette generazioni, dalla Greatest Generation – nata tra il 1901 e il 1927 e testimone di eventi storici come i due conflitti mondiali – fino alla più recente Generazione Alpha. Il prossimo anno, il 2025, darà il benveuto alla Generazione Beta. Ogni generazione porta con sé un bagaglio unico di esperienze, valori e comportamenti, che inevitabilmente influenzano il modo in cui interagiscono con la società, con la tecnologia e con i brand.

Prendiamo ad esempio la Silent Generation, nata tra il 1928 e il 1945. Questo nome ha origine negli Stati Uniti e sottolinea una certa reticenza tipica dell’epoca nell’esprimere le proprie opinioni in pubblico. Questa generazione, spesso definita la “maggioranza silenziosa”, è cresciuta nel contesto di grandi trasformazioni sociali, come la lotta per i diritti civili negli anni successivi. Abituati a comunicare attraverso le lettere e con una tecnologia limitata a radio e telefono per i più fortunati, oggi i membri sopravvissuti di questa generazione si affacciano al mondo digitale come fruitori occasionali, soprattutto di video.

Per molti senior della Silent Generation, la Rete è diventata un antidoto contro la solitudine, un ponte che li collega ai figli e ai nipoti spesso distanti. La tecnologia, in questo caso, offre loro un canale di connessione con il mondo, permettendo di mantenere relazioni familiari e sociali che, altrimenti, si farebbero più rare e difficili. È interessante notare come la tecnologia non sia vista solo come una novità da esplorare, ma come uno strumento funzionale per alleviare l’isolamento e partecipare, anche se a distanza, alla vita delle nuove generazioni.

Un esempio curioso arriva dalla Cina, dove la politica del figlio unico ha contribuito a creare un modello familiare “4-2-1”: quattro nonni, una coppia e un solo bambino. Tradizionalmente, i senior cinesi passano la pensione accudendo i nipoti e mantenendo stretti legami con la famiglia. Tuttavia, con l’urbanizzazione e la globalizzazione, le giovani generazioni si sono spostate sempre più verso i centri urbani o all’estero per lavoro, lasciando i genitori e i nonni a vivere separati dalla famiglia. Questo ha portato molti anziani a trovare nuove forme di indipendenza e a cercare la propria felicità in modi diversi, spesso utilizzando la tecnologia come strumento per continuare a essere parte attiva della società.

Con l’evoluzione digitale, le generazioni più anziane in Cina stanno accedendo a nuove opportunità di intrattenimento e apprendimento, che prima erano loro precluse. Basta visitare i parchi e gli spazi pubblici del Paese per vedere persone di età avanzata impegnate in attività come il ballo di piazza, il tai chi o il kung-fu. Questo fermento sociale si riflette anche online, con una presenza crescente di un gruppo molto particolare: le Chinese Damas. Queste donne anziane hanno vissuto periodi di carestie e disordini politici, ma oggi, grazie agli smartphone e alla tecnologia, hanno iniziato a dedicare più tempo a sé stesse e al loro benessere.

Le Chinese Damas stanno riscoprendo il piacere dell’esercizio fisico e del contatto sociale, sia dal vivo che via mobile. Un esempio di questa tendenza è l’applicazione Tang Dou, progettata specificamente per i senior attivi e, in particolare, per le donne che amano la danza. Il ballo è una delle attività più amate da questa fascia d’età, tanto che il settore in Cina ha un valore di circa 145 miliardi di dollari. L’app Tang Dou, che è diventata popolare per la sua capacità di mettere in contatto ballerini, ha quasi 40 milioni di utenti attivi mensili e, nel corso degli anni, ha ricevuto finanziamenti per oltre 25 milioni di dollari. L’app offre diverse funzionalità: dalla ricerca di partner di ballo a forum online, chat di gruppo, tutorial e la possibilità di condividere video delle proprie performance. Questo dimostra che, contrariamente agli stereotipi, i senior cinesi sono altamente coinvolti nel mondo digitale. Le Chinese Damas non solo utilizzano la tecnologia per mantenersi attive fisicamente, ma anche per connettersi con gli altri, dimostrando come l’innovazione digitale possa trasformare positivamente la vita delle generazioni più anziane. La storia delle Chinese Damas rappresenta un interessante esempio di come le tecnologie digitali possano non solo migliorare la qualità della vita delle persone anziane, ma anche promuovere il loro benessere sociale e fisico.

Le generazioni successive, dalla Baby Boomer alla Gen Alpha, ciascuna con le proprie peculiarità e sfide, rappresentano un campo fertile per l’esplorazione di small data e insight. La Gen Beta, ad esempio, sarà la prima ad essere completamente immersa nell’intelligenza artificiale, con implicazioni ancora tutte da scoprire. In conclusione, il tema generazionale è cruciale per comprendere come le persone si relazionano con la società, i brand e la tecnologia. Ogni generazione porta con sé specifici valori e necessità, e saper intercettare questi bisogni permette ai brand di creare strategie di comunicazione e marketing più efficaci e autentiche, capaci di risuonare profondamente in ciascun segmento della popolazione.

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Tratto, ispirato e ampliato da:
#Datastories. Seguire le impronte umane sul digitale (ed. Hoepli)

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