Scuro Chiaro

La gentilezza è un valore per la Rete? E come si impara?

Noi di BeUnsocial lo abbiamo chiesto a Genny Di Filippo. Consulente e formatrice in comunicazione, supporta gli enti pubblici e privati nelle attività di comunicazione interna ed esterna e aiuta aziende e professionisti/e a trovare la propria voce. Non solo. Nel 2019 Genny ha fondato la Scuola di Comunicazione Gentile (anche su FB, IG e LinkedIn) attraverso la quale svolge laboratori di comunicazione, condividendo riflessioni e buone prassi per imparare a comunicare con gentilezza. Una risposta decisa, insomma, al proliferare di un linguaggio basato purtroppo troppo speso sull’enfatizzazione delle paure, l’esasperazione del pregiudizio e la diffusione di fake news che alimentano solo dubbi e insicurezze.

Quale definizione possiamo dare all’aggettivo “gentile”?

L’aggettivo gentile subisce grandi evoluzioni durante il corso della storia. La cosa interessante è che se ci si imbatte nella ricostruzione etimologica del termine ci si rende subito conto che ad essere centrali sono i concetti di appartenenza e di socialità. Dopo un primo momento in cui – con i Romani e la Gens – il senso di appartenenza ha avuto la meglio, nel Medioevo i cosiddetti Gentiles – gli Aristocratici – si sono dati delle norme e delle regole diventate oggetto di imitazione per lo stare insieme e per la crescita personale. Personalmente mi piace pensare che possa esserci ancora uno spazio per descrivere la parola gentile come una “filosofia di vita, una sensibilità verso ciò che ci circonda, una lente attraverso la quale osservare il mondo per favorire situazioni di incontro, scambio, condivisione”.

Perché spesso in Rete la scrittura non è così gentile?

Trovare una risposta a questa domanda non è facile, soprattutto se pensiamo al fatto che l’internet degli esordi, ovvero quel posto in cui si navigava con nickname e sotto nomi fittizi, è sempre più un ricordo. Probabilmente la mancanza di un contatto diretto con il destinatario pone un problema di consapevolezza circa l’esistenza di un’identità digitale. Si tende a pensare, sbagliando, che ciò che mettiamo in rete abbia un peso minore rispetto a ciò che ci scambiamo durante un incontro “vis a vis” e invece non è così.

Disponibilità all’ascolto, dialogo, pazienza, anche nel comunicare sul digitale. Come si imparano?

Credo fortemente nel valore dell’esperienza e di una profonda connessione con le proprie emozioni. Lavorare nella comunicazione mi ha insegnato, prima di ogni altra cosa, che l’ascolto, il dialogo, la pazienza, la comunicazione stessa… sono qualcosa di intangibile, pur attraversando la nostra quotidianità. Ed è proprio la quotidianità a renderci meno sensibili a tutto questo, poiché ne siamo pervasi senza sosta. Dobbiamo prestare attenzione alle esperienze che viviamo, con l’intento di percepire cosa cambia se ci ascoltano o se non ci ascoltano, se possiamo esprimerci o se non possiamo esprimerci, e così via… Il fine ultimo è riconoscere le nostre emozioni, capire come vogliamo sentirci e pensare che dall’altra parte c’è qualcun* che potrebbe subire le nostre scelte.

Quali sono i settori che hanno più bisogno di gentilezza?

Per cercare di essere il più esaustivi possibile potremmo fare una distinzione tra sfera privata e sfera pubblica. A livello sociale c’è bisogno di gentilezza in tutti quei contesti in cui c’è relazione: penso alla scuola, al mondo del lavoro e a tutti i contesti di scambio in cui le persone non scelgono con chi avere a che fare. A questi si aggiunge il mondo dell’informazione e della comunicazione che propone quotidianamente modelli spesso contrastanti con un atteggiamento che promuove la gentilezza. Nel privato – qualcun* potrebbe pensare “faccio come voglio” – essere gentili significa anche prendere una posizione, scegliere, perché poi alla fine uno dei grandi problemi è anche quello di chi fa il primo passo.

Come entra il tema dell’inclusività in tutto questo?

Il tema dell’inclusività presuppone un’esclusione e di conseguenza una mancanza di quell’atteggiamento, di quel modo di vedere le cose, che abbiamo descritto come “gentile”. I motivi dell’esclusione possono essere molteplici, ma sappiamo essere basati su una visione soggettiva e parziale della realtà. Dobbiamo tornare a lavorare sull’empatia, sulle emozioni, sui sentimenti di appartenenza per ricordarci che ognun* può avere il suo posto nella società. Un pensiero che porto con me dai tempo del liceo è questo: “bisogna concedersi il piacere di scambiarsi ciò che ci si può scambiare, il resto possiamo tenerlo per noi nel rispetto dell’altr*”.

Come è nata l’idea della scuola?

La scuola nasce da: una condivisione di intenti, quella che la gentilezza è una competenza preziosa per il futuro di ognun* di noi; dalla volontà di voler mettere a disposizione di altre persone le nostre conoscenze, soprattutto delle generazioni più giovani, delle persone che sentono la pressione del digital divide e di coloro soffrono la mancanza di gentilezza; dalla trasformazione di esperienze negative in qualcosa –  speriamo – di positivo. Personalmente ho vissuto situazioni ed esperienze che la società condanna, ma che di fatto ci sono e che, se denunciate in solitaria, finiscono per diventare un grande boomerang che ti colpisce due volte. Avevo due strade: diventare una persona peggiore o ribellarmi con gentilezza. Ho provato a seguire la seconda e questa scelta mi ha resa e mi rende ancora oggi felice.

C’è una case history particolarmente rilevante su cui avete lavorato come Scuola di Comunicazione Gentile?

Abbiamo lavorato in una classe di un liceo con un numero elevato di studenti e studentesse con DSA e fenomeno di bullismo. Li abbiamo guidati verso l’esplorazione e la conoscenza del bullismo e del cyberbullismo, abbiamo chiesto loro di proporre idee a contrasto dei due fenomeni e come output abbiamo realizzato il Manifesto Antibullismo. Ci siamo rese conto che c’era una forte necessità di esprimersi da parte loro, chiedevano silenziosamente uno spazio di confronto non per forza scandito da un programma ministeriale, bensì un momento in cui dialogare di come vanno le cose, come ci sentiamo, cosa accade intorno a noi.

Quale parola introdurresti nel Dizionario della Gentilezza per il 2023, e perché?

Fiducia, perché credo sia l’elemento indispensabile per fare il primo passo e iniziare un percorso verso la gentilezza. Fiducia verso l’altr*, nel tentativo di iniziare a guardare con occhi diversi quello che ci arriva. Penso ai tanti errori involontari che ogni giorno commettiamo quando entriamo in relazione con le altre persone: una frase di troppo, un saluto mancato, un richiamo fuori luogo, possono essere trappole per abbandonare la gentilezza e prendere strade fuorvianti. Anche nella collettività – come società – manteniamo lo status di persone singole ed è necessario essere consapevoli che le piccole cose innescano reazioni e processi imitativi.

Related Posts