“Noi crediamo alla possibilità di un numero incalcolabile di trasformazioni umane, e dichiariamo senza sorridere che nella carne dell’uomo dormono le ali.” Era il 1910 quando, nel pezzo intitolato L’uomo moltiplicato e il regno della macchina, Marinetti profetizza una nuova estetica che punta i riflettori sulla bellezza meccanica, simbolo della fusione tra corpo umano e componenti artificiali. Dieci anni dopo, in pieno primo dopoguerra, lo stesso Marinetti pubblica in italiano il dramma Elettricità sessuale, dove un uomo e una donna si sdoppiano in due robot elettrici, con atteggiamenti sessuali libertini che diventano la chiave per interpretare la propaganda interventista e nazionalista. Da qui in poi, la produzione culturale che mette al centro umani robot e robot umani esplode, dapprima con il genere cinematografico fantascientifico, per poi invadere tutti gli altri campi, dalla letteratura alla moda, dai fumetti ai videogame.
Negli anni Cinquanta, fyborg e cyborg vengono superati da una terza categoria di creature: gli androidi, ovvero robot con apporti biologici e con una stretta somiglianza con l’essere umano. I replicanti iniziano a essere ovunque: tra le pagine di Asimov e Dick, per poi arrivare all’apice della popolarità nel 1982 con Balde Runner, nonché con tutto il filone CyberPunk. Sono questi anche gli anni di Ranxerox, firmato da Stefano Tamburini, amorale androide, sboccato e ferocemente truce, che nasce da pezzi di una fotocopiatrice Rank Xerox; e di Videodrome di David Cronenberg, che sdogana in modo definitivo la commistione antropo-tecnologica.
L’ultimo film vincitore del festival di Cannes, Titane, della regista francese Julia Ducournau, ce lo dice chiaro e tondo: pensare che sia un fenomeno relegato a quegli anni è sbagliato. Intanto, perché ha attratto a sé una certa club culture giovanile underground, composta a sua volta da un sottobosco di subculture collegate a visioni retro-futuristiche e, a volte, anche all’uso di droghe, farmaci e altri prodotti chimici per potenziare le prestazioni. In seconda battuta, abbiamo parecchi indirizzi su come l’attenzione per una narrazione e un’estetica post-umana stia tornando prepotentemente di moda in questi ultimi anni. Soprattutto grazie alla condivisione in Rete, fantasy e fantascientifico hanno fomentato estetiche pienamente realizzate come il goblincore, il fairycore e il cryptidcore, forme alternative di bellezza che allentano la pressione di dover apparire in un certo modo conforme alle aspettative.
Per individuare il perché di questa nuova libertà espressiva e auto-rappresentativa, dobbiamo guardare al senso di decentramento che si sta facendo largo: sono le comunità online che modellano le tendenze, e non le grandi case di moda ad alimentarle. In un periodo così fosco, macchiato di pessimismo per la crisi, la guerra dietro casa e la pandemia appena lasciata alle spalle, il pensiero futuristico è una perfetta via di fuga per evadere e immaginare una vita se non migliore, almeno diversa. In questo contesto, emerge dunque l’interesse per la bellezza aliena e per i look futuristici che elementi tecnologici e fantasy, capaci di ispirare online un numero cospicuo di giovani, emo e alt-girl soprattutto, da Tumblr a TikTok.
A fare da sottofondo alla sovversione delle norme culturali, si accompagna anche la ricerca di forme di alt-music. Artisti del calibro di Bree Runway, l’icona pop Rina Sawayama e l’aspirante cyborg Grimes stanno dando man forte al nu-metal e al pop punk, accelerando e rendendo ancora più mainstream un immaginario distopico che cammina in bilico tra Cyberpunk ed estetica medievale, come in certe pagine del Codex Seraphinianus di Luigi Serafini. Tra i sottogeneri musicali collegati, l’ethereal wave in particolare, con i suoi i testi lirici ed esoterici, esplora una straniante commistione tra dream pop e sonorità del Medioevo. Anche la spada brandita da Grimes al Met Gala del 2021, realizzata dal collettivo MSCHF, è un chiaro segno di come la reinterpretazione retro-futuristica si sia concretizzata, passando in questo caso dal gaming, di cui è un’icona per aver partecipato al gioco Cyberpunk 2077. Alla passerella del Met, non sono mancati, tra l’altro, un abito con squame in trasparenza sulla pelle, firmato da Iris Van Herpen e realizzato con la stampante 3D, protesi di metallo a punta sulle orecchie a richiamo dell’arma e mascherina metallica lucida.
A Grimes va inoltre intestato il sopravvento sui social media di tatuaggi con inchiostro bianco dal DNA post-umano, simili a vene cyborg e descritti come “cicatrici aliene”, anche ribattezzato come nu-tribali: i segni sulla pelle ricordano, infatti, i simboli tribali di una tecnocrazia marziana, evoluta e adattata all’era contemporanea, come usciti da un’opera di Hans Ruedi Giger. Il carattere ultraterreno di questi ampi tatuaggi dalle linee fluide, spesso disegnate a mano libera, è il risultato di una commistione tra fantascienza e natura. E una punta di nostalgia Rawring 20s e Y2K. Una tendenza emergente, ad esempio, sono i tatuaggi ASCII, anch’essi dal sapore post-umano, con le loro sequenze di numeri e caratteri generati da un computer. Chissà che la Rete non porti sulla pelle umana sempre più opere create con Flash art e Paint.
Non può essere ignorato il desiderio di fuggire dalla prigione della nostra pelle e scappare verso territori più soddisfacenti. I tatuaggi da accessori stanno diventando “modelli” di pelle da sostituire alla propria. Cambiare pelle, in fondo, significa proprio mutare le proprie idee, posizioni o stile di vita. Dunque, i segni sulla cute diventano parte integrande del corpo, si fondono, per far fronte al destino proprio e collettivo. Con l’ansia climatica cresce anche la sensazione di impotenza, di fragilità e di perdita dell’autonomia corporea. Avere una seconda pelle certo non ci salverà dalle temperature elevate ma almeno proietta la fantasia di potercela fare con un’arma in più.
Quando si parla di androidi e alieni, anche l’arte ci mette il suo zampino. Hannah Rose Dalton e Steven Raj Bhaskaran, il duo dietro al brand multidisciplinare Fecal Matter, in collaborazione con l’artista Sarah Sitkin hanno realizzato un paio di stivali in “pelle” di silicone iperrealistica. Provate a cercarli online: realizzati attraverso un processo di stampaggio e pittura combinano il realismo delle dita dei piedi, delle caviglie, delle ginocchia e dei muscoli con una mutazione fisica rilevante fatta di corna che spuntano ed estensioni carnose del tallone. Con l’emergenza sanitaria, il duo ha presentato su Instagram anche una mascherina per il distanziamento sociale e un paio di guanti in silicone, “futuristici, lavabili, riutilizzabili e pratici”. I loro lavori artistici sono la rappresentazione plastica della libertà del regno digitale, dove possiamo facilmente modificare il nostro corpo. Il messaggio? Possiamo essere chiunque vogliamo.
E infine, c’è anche chi la rischia, la pelle. Su Instagram e su TikTok si aggira un alieno bellissimo che risponde al nome di Genna Marvin: lattice, guanti lunghi e affusolati, tacchi vertiginosi e trucco bianco. Vive a San Pietroburgo e senza dubbio molto di quello che fa ha a che fare con i diritti LGBTQ+, ma l’adozione di un’estetica androide non si riduce solo a questo. La sua immagine è simbolo di libertà, non solo in Russia, ma in tutto il mondo. Ci sta dicendo questo: cambiate atteggiamento nei vestiti, nei comportamenti, nella vita di tutti i giorni, cambiate pelle, e arriveremo a un futuro migliore. Per arrivare a quello scenario, che immaginiamo tanto distante e colonizzato da alieni, non serve un’accelerazione tecnologica, ma una comprensione più profonda (ed elementare) dell’essere umano.