A inizio novembre We Are Social ha presentato il report Think Forward 2021 che esplora i trend che orienteranno la comunicazione nei prossimi dodici mesi. Con un eccezionale lavoro collaborativo, hanno seguito tracce umane e messo in relazione parecchi insight sulla cultura digitale globale. Il lavoro merita davvero di essere studiato e condiviso: per comprendere più a fondo le trasformazioni in corso, per abbracciare nuovi punti di vista, per prendere più consapevolezza dei territori digitali che abitiamo quotidianamente e che cambiano con noi e le nostre esigenze. Prima d’ora chi avrebbe mai pensato a TikTok come piattaforma di gardening? A a Instagram come un luogo dove informarsi su temi sociali e prender parte a movimenti? Pensiamo a Facebook, che ha aggiunto l’emoji “care”, per facilitare interazioni più “intime”. E ancora, a Fortnite: piattaforma di gaming o ormai hub social? Oppure riflettiamo su Zoom e a come siano nati dei veri e propri album musicali in collaborazione tra star e fan.
Gli stimoli offerti dall’agenzia e dallo studio sono infiniti. Non potevamo dunque non segnalarvi questo preziosissimo documento e, più in generale, l’impostazione umanistica di We Are Social che sentiamo così affine. Come tante volte ci siamo chiesti qui su Be Unsocial, qual è il valore di un approccio umano nel digitale? Cosa significa mettere al primo posto le persone e i loro comportamenti? E ancora, cosa non troveremo più online dopo l’emergenza sanitaria?
Abbiamo fatto tutte queste domande a Matteo Starri, 10 anni in We Are Social, prima a Londra, ora a Milano. Research & Insight Director, guida un team di ricercatori e analisti responsabili dell’individuazione di insight culturali a supporto di lavori strategici e ganci creativi, oltre che alla misurazione dell’impatto delle attività sul business e la comunicazione dei brand con cui collabora. Gli piace parlare del suo lavoro – l’ha fatto anche a IF! e con NABA, Cattolica, Talent Garden – anche se preferisce parlare di bici o pallone se può. Qui la nostra chiacchierata: niente ruote e sfere, in realtà, ma tanto sul digitale, quello che piace a noi, umano e concreto.

Che valore ha l’approccio umano dentro la realtà di We are social? Che cosa significa per voi guardare innanzitutto alle persone e ai loro comportamenti? Qual è il valore aggiunto del Social Thinking?
Il nostro mantra è People before platforms. Tutti i nostri lavori mettono le persone al primo posto, e solamente una volta compresi i loro need, i loro desideri, le loro barriere all’ingresso rispetto a un determinato settore, brand, prodotto o tema culturale lavoriamo al come raggiungerli e dove.
Ed è proprio in questo senso che intendiamo Social: interpersonalità, interazioni, interfaccia, non media o piattaforma. Le relazioni tra persone sono sempre esistite, ora abbiamo nuovi luoghi dove le persone si aggregano ed interagiscono ma le dinamiche sono le medesime: se un bar non è frequentato da persone che ci vanno a genio, possiamo cambiare o adattarci; se vogliamo esplorare un nuovo hobby possiamo iscriverci a un circolo locale. Lo stesso avviene con i social: con i due esempi precedenti, possiamo cambiare piattaforma se ad esempio non ci piace più, o possiamo iscriverci ad un forum o ad un subreddit o seguire degli influencer che ne sanno più di noi.
Le dinamiche sono le stesse, ed è quindi importantissimo capire i comportamenti umani prima che le tecnicalità delle piattaforme specifiche. Nel team di Research & Insight che guido, ad esempio, abbiamo fatto tutti percorsi accademici e lavorativi diversi ma che gravitano molto verso le scienze umane (io ad esempio vengo da Lettere e da un Master in Informatica Umanistica) e molto poco verso la statistica, anche se siamo anche responsabili della misurazione delle campagne che creiamo per i nostri clienti.

Da quali premesse nasce il report Think Forward 2021 – The Social Reset e qual è stata la metodologia di indagine che avete seguito?
Siamo ormai alla sesta edizione e come per gli anni scorsi abbiamo cercato di codificare alcuni comportamenti che abbiamo captato nel corso dell’anno. Abbiamo un gruppo di persone in ciascuno dei nostri 15 uffici che chiamiamo Social Spotting network, che ogni mese discute sui Cultural Artifacts individuati in ciascun mercato, per valutarne la rilevanza per altri paesi, la crescita o il declino, il loro status di “evento singolo” o codifica in vero e proprio trend, e naturalmente anche la loro possibile fertilità per i brand.
Si tratta di un progetto di cui andiamo molto orgogliosi anche perché il processo è estremamente collaborativo e coinvolge figure professionali di vario tipo all’interno dell’agenzia, coinvolte in qualsiasi step del nostro processo creativo, dalla ricerca alla strategia alla creatività vera e propria, e tutte le loro sfumature.

Cosa non troveremo più nei territori social dopo l’emergenza sanitaria?
In concreto, è veramente complesso rispondere a una domanda di questo tipo, perché esistono tanti internet quanti sono gli utenti, ciascuno con le rispettive bolle, nicchie di interessi, influenze.
Speranza mia personale invece: odio in tutte le sue forme, disinformazione, tuttologia. Abbiamo visto abbassarsi, quest’anno e in tanti ambienti, il livello di tolleranza nei confronti di questi comportamenti ed atteggiamenti, quindi la speranza c’è.
Quello che continueremo probabilmente a vedere è uno shift su canali più privati come WhatsApp o Messenger per quanto riguarda le conversazioni dell’ambito più privato, e una crescita in parallelo di piattaforme tematiche in cui confrontarsi con persone da interessi o gusti simili, come l’universo dei Sub su Reddit o i server di Discord, o, per rimanere su piattaforme più “tradizionali” come Facebook, i gruppi privati.

Al punto quattro si parla di come ai personaggi pubblici oggi venga chiesto di utilizzare le piattaforme social in modo responsabile. Quali forme stanno assumendo i testimonial e gli influencer?
Si tratta di un tema di cui abbiamo parlato tanto internamente di recente, in ottica Think Forward ma anche in maniera più generale e quasi filosofica, se mi si passa il termine. La linea di demarcazione va via assottigliandosi: influencer che diventano testimonial, testimonial nel senso più tradizionale del termine che hanno una forte influenza anche online. Noi in realtà di solito parliamo (volutamente) di influence in senso ampio ma neutro, proprio di chi o cosa influenza chi o cosa in alcune scelte, in alcuni comportamenti: in quest’ottica, può essere un testimonial, un influencer, un giornale, un content creator, una media company, un brand, un amico, il gruppo famigliare (proprio sul gruppo famigliare avevamo sottolineato questo aspetto nella nostra etnografica sulla Generazione Z del 2019, nel trend 5, Inverse Influence).
Il contesto storico in cui viviamo ha fatto sì che si mescolassero ad esempio i mondi dell’influenza e dell’attivismo, con celebrità come Selena Gomez che hanno dato spazio, letteralmente cedendo temporaneamente i propri profili, ad attivisti a sostegno di diverse cause, la più evidente quest’anno probabilmente il movimento BLM.

Infine, una domanda su un territorio molto specifico: TikTok. Se ne parla tanto, spesso senza consapevolezza e additandolo come frivolo, ma qual è il suo ruolo oggi?
TikTok è uno spazio dove stiamo vedendo (e contribuendo a) tanta creatività, in particolare per quanto riguarda la co-creazione di contenuti, o Open-Source Creativity, come l’abbiamo chiamata nel Think Forward di quest’anno. Duetti, challenge e “culti” nascono proprio con l’idea di non essere semplicemente creati “da un lato” e fruiti “dall’altro”, ma sono by design collaborativi, prevedono la partecipazione attiva e non semplicemente il lurking o la fruizione passiva.
Si tratta di una piattaforma molto giovane (Douyin è stata lanciata in Cina nel Settembre 2016, e tra il Maggio e il Settembre dell’anno successivo prima esce dalla Cina e poi acquista Musicall.ly) e come tale, e come altre in passato, può essere accolta o con diffidenza o con un approccio creativo e di sperimentazione. Noi stiamo vedendo risultati interessanti sui progetti che abbiamo attivato, e non dimentichiamo che per un brand l’ingresso in questo mondo può anche essere “soft” nel senso che per attivare una campagna non c’è striclty speaking bisogno di avere un profilo attivo da mantenere.
Anche qui come altrove, comunque, un approccio people first è indispensabile: capire chi è presente sulla piattaforma, che tipo di contenuti sono di interesse per quel pubblico, perché quei contenuti sono fruiti lì e non altrove, sono tutte considerazioni essenziali al fine di evitare l’effetto “how do you do fellow kids”.
Alice Avallone (Asti, 1984) insegna alla Scuola Holden e fa ricerca con l’etnografia digitale per le aziende. Da anni, infatti, unisce scienze sociali e ricerca in Rete per comprendere le relazioni umane online: codici, comportamenti, linguaggi. In passato ha scritto una guida di viaggio con la rivista Nuok (Bur), il manuale Strategia Digitale (Apogeo), e ha curato il libro Come diventare scrittore di viaggio (Lonely Planet). Per Franco Cesati Editore ha pubblicato il saggio People Watching in Rete. Ricercare, osservare, descrivere con l’etnografia digitale e il manuale di scrittura per il turismo Immaginari per viaggiatori. A inizio 2021 è tornata in libreria con #Datastories. Seguire le impronte umane sul digitale per la collana Tracce di Hoepli.