2. La prima cosa di cui ci accorgiamo è quella che cercate di nascondere. Amiamo trasparenza, autenticità e rispetto. Non provate a manipolarci.
Eccoci alla seconda tesi del nuovo manifesto delle ragazze e dei ragazzi del College StoryDesign della Scuola Holden. Della prima ve ne avevamo parlato qui. Le nuove generazioni chiedono alle aziende di non raccontare balle, ma come si misurano le relazioni con i brand? In che modo i marchi possono misurare il livello di engagement dei propri clienti e quindi misurare l’efficacia dei loro programmi di fidelizzazione, ad esempio?
Chi si occupa di marketing ha usato a lungo il Net Promoter Score (NPS) per fare proprio questo. Secondo il Wall Street Journal, la metrica era stata citata più di 150 volte da 50 società dell’indice S&P 500 nel 2018. Tuttavia, c’è chi ne critica il modello: Debra Grace, professoressa di marketing alla Griffith University e co-autrice del paper “Brand fidelity: Scale development and validation“, sostiene che un problema chiave con l’NPS è che misura l’intenzione, non il comportamento.
Nell’attuale letteratura, c’è l’idea che costruire relazioni forti e sostenibili tra consumatore e brand sia una pietra miliare del successo del marketing di oggi. Le prime ricerche su questo tema sono state per lo più incentrate sul prodotto, ovvero sulla comprensione e sulla misurazione della soddisfazione del cliente e sulle prestazioni percepite del prodotto. La ricerca si è poi evoluta negli anni ’80 e ’90 con un’attenzione consapevole alla ricerca di variabili a lungo termine per la risposta dei consumatori, come il coinvolgimento, la fedeltà e l’amore per il marchio. Ma solo in tempi più recenti abbiamo iniziato a misurare il comportamento delle persone, piuttosto che chiedere loro come si sentivano.

Per capire come si mantiene viva una relazione tra brand e consumatori, vale la pena attingere dalla nostra vita reale e da ciò che spiega come le persone si impegnano a vicenda. Sono tre gli elementi che influenzano quanta passione ci mettiamo in un rapporto a due: soddisfazione, valutazione delle alternative (che abbiamo scartato) e scambio trasparente. E una volta che ci impegnamo con qualcuno, finiamo a fare questi gesti:
- Perdoniamo
- Siamo più propensi a fare sacrifici
- Iniziamo a parlare di “noi ” e non più di “me”
- Smettiamo di cercare altri partner
- Soprassediamo sui difetti dell’altro
Lo stesso ragionamento dunque vale con i brand che amiamo, soprattutto quelli definiti lovemark. Perdoniamo le scivolate di stile, il prezzo alto, le prestazioni non proprio impeccabili, ad esempio. Le persone tendono a impegnarsi con brand che dimostrano i loro valori in modi più umani ed emotivi, attraverso l’obiettivo di onestà, fiducia e trasparenza – proprio come chiede il manifesto. C’è un vero desiderio di costruire più relazioni su queste basi.

Una ricerca di Salesforce ha rilevato che uno dei maggiori ostacoli alla costruzione di queste connessioni è la diffidenza nei confronti del modo in cui i marchi utilizzano i dati: il 69% delle persone non sposerebbe un marchio se l’utilizzo dei dati fosse invasivo, mentre il 54% non ritiene che le aziende abbiano a cuore i loro interessi quando si tratta di dati. Questa sfiducia sta spingendo i marchi a trovare nuovi modi di comunicare integrità su tali questioni. Pensiamo ai colossi: Facebook con la campagna Privacy Is Personal vuole educare alla sicurezza digitale; Amazon ha aggiunto una più comoda cancellazione ad Alexa; Apple ha operato alle sue pagine sulla privacy una revisione estetica per aumentare la fiducia.
Infine, che si tratti di impegnarsi a ridurre al minimo il danno ambientale o ad aumentare la consapevolezza dei problemi sociali, le persone vogliono più di un prodotto o un servizio da un brand. Sempre più, questi valori stanno diventando cruciali per mantenere i clienti coinvolti. Due esempi su tutti: EasyJet ha annunciato di aver iniziato a compensare le emissioni di carbonio di tutti i suoi voli senza costi aggiuntivi per i clienti; Deciem (e tanti altri) si è opposto al consumismo boicottando il Black Friday e chiudendo i suoi negozi fisici e online.
Alice Avallone (Asti, 1984) insegna alla Scuola Holden e fa ricerca con l’etnografia digitale per le aziende. Da anni, infatti, unisce scienze sociali e ricerca in Rete per comprendere le relazioni umane online: codici, comportamenti, linguaggi. In passato ha scritto una guida di viaggio con la rivista Nuok (Bur), il manuale Strategia Digitale (Apogeo), e ha curato il libro Come diventare scrittore di viaggio (Lonely Planet). Per Franco Cesati Editore ha pubblicato il saggio People Watching in Rete. Ricercare, osservare, descrivere con l’etnografia digitale e il manuale di scrittura per il turismo Immaginari per viaggiatori. A inizio 2021 è tornata in libreria con #Datastories. Seguire le impronte umane sul digitale per la collana Tracce di Hoepli.