Raccontare le tendenze: parola a Maria Luigia Donati e al suo progetto MOOD

Maria Luigia Donati è di Lucca, ma è sempre stata un po’ nomade; ha vagato per l’Europa e si è fermata per qualche anno in Olanda. Dopodiché, ha frequentato la Scuola Holden di Torino, dove si è displomata qualche giorno fa. Le piace osservare le cose, vederle non le basta. E forse è proprio per questo che il suo progetto di fine biennio rispecchia molto bene questa sua attitudine.

Mood vuole diventare una rivista annuale e nasce dalla voglia di analizzare l’attualità e ciò che ci circonda per poter avere un’ idea di cosa ci aspetta nel mondo delle tendenze. Per captare il cambiamento bisogna partire da due regole: non seguire modelli mentali consolidati e non individuare il nuovo basandosi su idee vecchie. La rivista è progettata per non essere sfogliata, ma aperta e combinata. È composta infatti da moodboard fotografici e illustrativi che vengono fuori da una scatola. Il lettore potrà comporli a proprio piacimento, secondo il proprio mood, appunto.

Il numero 0 analizza l’epoca del post-vero e la declina in vari modi: nuova borghesia, colori, cambiamento dell’estetica dei social network. Una parte è interamente dedicata alla prima generazione digitale: la generazione Zeta, un’altra introduce il design rigenerativo. Ogni poster è composto da immagini apparentemente scollegate fra loro, ma che in realtà guardate nell’insieme creano un’immagine uniforme e armoniosa.

Abbiamo fatto due chiacchiere (anzi, più di due!) con Maria Luigia Donati, ideatrice del progetto, per saperne di più e conoscere il suo punto di vista sulle tendenze e sulla generazione Z.

Buona lettura.

Il tuo progetto di rivista annuale MOOD racconta il mondo delle tendenze con il linguaggio dei moodboard. Come nasce questa tua intuizione?

La scorsa estate, dopo la fine del primo anno alla Scuola Holden, mi sono ritrovata a pensare a che progetto portare a Opening Doors, sapevo già che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa che riguardasse gli argomenti che mi sono sempre interessati di più: la moda, il design, il mondo dei social network e delle tendenze.

Quando ho pensato al come, ho deciso che mi sarebbe piaciuto moltissimo fare qualcosa con le immagini e le foto; guardando alcuni report di tendenze, o semplicemente degli articoli, mi sono accorta che capivo meglio le cose per immagini che con le parole. I testi scritti spesso mi confondevano e io volevo creare qualcosa che fosse veloce e arrivasse a tutti. Nel mondo di oggi dove tutto è digitale e sempre online le immagini sono la cosa più immediata, volevo anche creare qualcosa per le nuove generazioni che vogliono cose a portata di mano e non possono, né vogliono perdere tempo.  Usare le immagini, però, è stato anche un modo per parlare di me.

Quando nel 2014 sono arrivata ad Amsterdam, ero sola e con il cuore spezzato, la prima stanza che avevo trovato in affitto era letteralmente un buco in una cantina. Era bruttissima, senza luce e senza connessione a internet. Non avevo amici, la sera mi ritrovavo sempre a guardare il muro spoglio che avevo davanti al letto. Per stare meglio spendevo quasi tutti i soldi che guadagnavo in biglietti del cinema e riviste di arte o di moda, ritagliavo le foto che mi colpivano e le attaccavo al muro, mi ero creata un angolo fatto di stampe, di foto che avessero qualche collegamento anche se provenienti da giornali diversi e mi rincuoravo guardandole, erano dei moodboard emotivi, parlavano del mondo fuori, ma anche delle mie speranze.

Dopo qualche mese la mia situazione è cambiata, avevo trovato una stanza carina, ma quell’abitudine l’ho mantenuta, avendo una connessione internet, potevo direttamente cercare le foto e le immagini online e scaricarmele sul computer. Inoltre, avevo scoperto che mi tornava molto utile per il lavoro: facevo la commessa in un negozio vegano e ogni giorno dovevamo postare qualche foto su Instagram per promuoverci. Sapere quali cose facessero tendenza e cosa succedesse in giro per il mondo ci permetteva di creare contenuti che piacessero ai clienti.

© Maria Luigia Donati | MOOD

Quali sono gli elementi che prendi in considerazione per determinare cosa stia per diventare una tendenza e che cosa invece potrebbe rivelarsi solo un fuoco di paglia?

Quando mi metto e cercare cose su internet per informarmi e trovare spunti nuovi cerco sempre di essere aperta nei confronti di quello che trovo anche se non mi piace. Guardo molto al periodo attuale: quale è il sentimento generale? Di cosa hanno paura le persone? Cosa desiderano? Mi aiuto molto con i film perché spesso riassumono molto bene l’attualità, leggo articoli, i commenti sui social network.

Seguo molte aziende su Instagram: aziende giovani e non molto conosciute, illustratori come Laura Callaghan o artisti come Kaws perché traducono in disegni quello che sta succedendo, leggo riviste come Flow, Cabana, Odda, Milk e Dust. Molti fotografi, direttori creativi di aziende come Alessandro Michele di Gucci, alcuni modelli – come Nathan Westling. Se tutti questi presentano qualche elemento in comune, vuol dire che probabilmente stanno lanciando qualcosa di nuovo. Guardo molto le foto scattate per strada durante le settimane della moda più indipendenti come quella di Tbilisi in Georgia, mi aiutano perché lo streetstyle di solito è più nuovo delle sfilate stesse.

Gli influencer non li seguo tanto perché molto spesso pubblicizzano prodotti che vengono inviati loro dalle aziende, possono incentivare una tendenza, ma non farla. Seguo delle personalità: Kate Middleton per esempio è una grande trendsetter perché non fa pubblicità, manda messaggi impliciti e quindi se tiene un certo comportamento è perché l’obiettivo è scatenare qualcosa che venga adottato da più persone. Per esempio è già da un po’ di tempo che si presenta a varie cerimonie ufficiali riciclando sempre gli stessi vestiti, lo fa con se stessa e con i figli: questo comportamento nasconde un messaggio di invito a sprecare meno, a essere più sostenibili e rispettosi dell’ambiente. In tanti hanno iniziato a imitarla.

Il fuoco di paglia è difficile da individuare. Alcune cose sono imprevedibili e non ci si può far nulla. Di solito quando un’azienda “spinge” troppo direttamente un colore, una forma, un prodotto, questo non diventerà mai di tendenza: le nuove generazioni vogliono sentirsi uniche e libere di scegliere, se si accorgono che vengono indirizzate perdono automaticamente interesse.

Se dovessi descrivere la prima parte del 2019 con soli due trend, quale coppia metteresti in cima alla lista?

Instagram, sempre meno social network del bello ma un social da vita vera, meno patinato e costruito e l’abbandono del minimalismo. Il mondo si sta spostando verso uno stile più colorato e pieno, ci sono sempre più stampe africane e tribali in giro, persino IKEA ha lanciato una collezione etnica. Le sottoculture africane e caraibiche stanno suscitando sempre più interesse perché in Occidente ormai non ci sono quasi più sottoculture: questo è un segnale di apertura e di apprezzamento della diversità e personalmente mi piace molto.

© Maria Luigia Donati | MOOD

In che modo la Generazione Z incide sulle tendenze di oggi?

La Generazione Zeta ha iniziato a dettare le regole. Fra pochi anni saranno i consumatori principali. Sono molto esigenti, comprano solo da aziende che comunicano valori in linea con il loro pensiero e che rispettino tali valori. Sono iperconnessi, informati, spesso imparano più da soli che a scuola.

Rispetto alle generazioni precedenti vogliono esperienze di acquisto personalizzate, non sono quasi più interessati ai programmi di fedeltà delle aziende, sanno di essere nati in un mondo difficile e caotico, per questo il benessere mentale e fisico è al primo posto. Desiderano l’unicità. Molti marchi stranieri come l’americano Bille, che si occupa di cura del corpo, si sono già mossi creando programmi ad hoc; Gucci, è uno dei marchi preferiti dai Centennial perché si impegna per l’eliminazione delle differenze di genere, si occupa di bullismo e tematiche sociali calde e importanti.

Per parlare alla Generazione Zeta bisogna innanzitutto capire che non sono manipolabili, seguono una determinata tendenza solo se sono sicuri che non ci sia qualche raggiro sotto. Le pubblicità tradizionali non funzionano più con loro, bisogna che siano cose belle da vedere, piacevoli da seguire e che facciano emergere la storia di un marchio, devono sentirsi liberi di scegliere, di provare e anche di sbagliare.

C’è qualcosa durante il tuo lavoro di ricerca che ti ha davvero stupita, che non ti aspettavi di intercettare?

La scorsa estate ho guardato su Netflix una serie documentario che si intitola Social Fabric la conduce Kyle Ng, un fotografo e designer di Los Angeles. Nella serie viaggia per il mondo mostrando come usi e costumi di determinati paesi siano arrivati poi in diverse parti del mondo. In una puntata parla del significato dei tessuti colorati in Kenya, in un’altra delle giacche dei campioni dell’NBA, in un’altra ancora degli stivali dei cowboy. Io questi ultimi li ho sempre odiati, ma qualche giorno dopo ho effettivamente notato che vengono indossati sempre di più.

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