Ha lavorato come autore teatrale, sceneggiatore, aiuto regista, videomaker, performer, insegnante di teatro. E infine, Riccardo Calabrò si è diplomato anche alla Scuola Holden in Digital Storytelling ed è diventato un narratore multimediale che incrocia racconti, linguaggi e piattaforme. Per il suo progetto di fine biennio ha portato sul palco un progetto che si chiama Crosser – una piattaforma di streaming video che trasmette talk battle, duelli retorici per sfidanti che la pensano in modo opposto sullo stesso argomento. Si lancia il tema, si crea il duello, ci sono regole, round, punteggi. Discutere diventa un gioco, e il conflitto un’occasione divertente di confronto tra persone. All’interno della prima community di talker avversari.
La parola “conflitto” è un moderno tabù, ma ci piace. E tanto. Game of Thrones, Champions League, campagne presidenziali, discussioni online: parteggiamo per l’una o l’altra fazione in gara e aspettiamo con ansia che le due rivali si scontrino, sicuri che ne usciranno fuori delle belle. Il conflitto ci smuove, nutre le storie che amiamo e spinge le idee rivoluzionarie, quelle che disegneranno il nostro futuro, a farsi spazio con forza in un presente che all’inizio le rifiuta.
Abbiamo pensato di approfondire questo tema proprio con Riccardo.
Buona lettura.

Che cosa significa la parola conflitto?
Di solito è sinonimo di “contesa”. Con un senso di prevaricazione di potere di una parte sull’altra. C’è un vincitore e un perdente. Nei casi peggiori, la parola conflitto è associata all’idea di guerra. Però l’origine della parola è conflictus, che vuol dire “urto” e questa è l’accezione che preferisco. L’idea di un confronto tra persone, nato da un urto iniziale. Come un tamponamento in macchina: due perfetti sconosciuti incrociano le loro vite attorno a un incidente che li mette subito su fronti opposti, in qualità di avversari, ma che al tempo stesso è un pretesto per farli conoscere. Questa seconda idea di conflitto è il tuo pane quotidiano, se sei uno che scrive. Non a caso la scena del tamponamento l’abbiamo vista in tante storie e sappiamo anche come andrà a finire. Da quel giorno la vita di quei due non fu più la stessa…
Da motore del racconto il conflitto diventa anche il modo di relazione tra i personaggi, che per ottenere qualcosa devono conoscere i propri nemici e stringere alleanze per superare l’opposizione di chi li ostacola. E cosa più bella, devono compiere un percorso di autoanalisi, alla luce dello scontro e del confronto con altri. E come gli atomi, che quando cozzano tra loro generano energia, così quando lo fanno i personaggi lo spettatore sussulta sulla sedia. Perché alla fine i veri beneficiari di una forma sana di conflitto siamo noi, che ci appassioniamo, prendiamo posizione sulle idee che vengono messe sul tavolo, ci vediamo riflessi nelle paure e nei desideri di quel personaggio o di quell’altro e entriamo in empatia chiedendoci come avremmo reagito al suo posto.
E in questo modo approfondiamo un percorso di conoscenza di noi stessi.

Il tuo background ha radici ben salde nel mondo teatrale. Quali dinamiche simili hai trovato sul palcoscenico della Rete?
Anche in Rete ci sono luoghi da cui potersi esprimere. Palchi “istituzionali” (per esempio YouTube) o autogestiti, come la sedia che uno si porta in Hyde Park, a Londra, su cui sale e parla. Che è come farsi un sito internet o aprire un blog. Da lì prendi la parola, diventi un attore e devi distinguerti da tanti altri. Puoi indossare una maschera e crearti un personaggio; oppure giocare un approccio ugualmente studiato ma più trasparente, rompendo la quarta parete – per la serie “sono così come mi vedete”. E c’è un pubblico che ti osserva o ti scansa, ti applaude o fischia.
Teatro e Rete hanno culture specifiche per alcuni versi opposte. Da una parte la vicinanza al corpo dell’attore, dall’altra la mediazione di una piattaforma digitale. Tutti e due però sono dispositivi scenici retti dal consenso e dal desiderio di chi crea contenuti di aver un confronto diretto col pubblico. Un pubblico che per entrambi è croce e delizia.
Se la gente va in Rete per far casino è un problema, se in un teatro non ci entra proprio, pure. Che il problema sia il troppo o il troppo poco, da entrambe le parti si sente parlare della necessità di educare il proprio pubblico. Trovare dei meccanismi che rendano i contenuti più validi anche quelli più seguiti, così che il pubblico si affezioni alla qualità e che di conseguenza si alzi l’asticella anche per chi comincia ex novo a farsi strada come content creator.
Questa almeno è la necessità che noto io e che condivido da spettatore digitale. Ed è la stessa che mi ha portato a immaginare Crosser. Vedere contenuti belli che, applauditi, spingano a crearne altri.

Quali filoni narrativi hai cercato di indagare con il progetto Crosser?
Crosser ha quattro genitori spirituali, sulla scia dei quali cerca di proseguire un discorso. Il primo è YouTube, in cui ho sempre visto rappresentata una storia di libertà. È la storia di chi è insofferente all’idea che le cose si facciano in un solo modo e ha trovato in YouTube la possibilità di avere sotto gli occhi la complessità del mondo, ma ben organizzata perché sia facilmente fruibile.
Il secondo genitore è il TED, con le sue conferenze. Questa invece è una storia di formazione, dove un eroe che non ha nulla se non le proprie orecchie e i propri occhi si crea una cultura, approfondisce temi, elabora dubbi e concetti a partire dagli insegnamenti di tanti maestri diversi.
In terza posizione, ci sono le battaglie rap. Una storia di emancipazione. Sei stato messo da parte, non ti senti all’altezza del mondo, bruci dalla rabbia ma ti ricordi che hai ancora forme come l’arte, la poesia, la musica che ti nobilitano agli occhi degli altri. Rap battle, poetry slam, duelli retorici. Sono tutti la stessa cosa. Potevi comprarti una pistola e invece sei finito a batterti di fronte a un pubblico. E battaglia dopo battaglia ti sei guadagnato un posto alla tavola di questa nuova famiglia che ora ti accoglie e ti rispetta. Non è “fama”. È la faticosa ricerca di un luogo da chiamare “casa”.
Infine, c’è il duello cavalleresco. Con la sua storia di fratellanza tra rivali. Come “I duellanti” di Joseph Conrad, due avversari che si sfidano per tutta la vita e che alla fine, messo da parte l’onore per cui si erano sempre battuti, scoprono che ciò che gli resta tra le mani è la conoscenza profonda di un’altra persona.
Tutte queste storie sono confluite in Crosser.

È solo in Rete che ci sentiamo più liberi di dire quello che vogliamo oppure è un fenomeno che riscontri anche nella vita di tutti i giorni?
La vita quotidiana ci obbliga ancora a “metterci la faccia”. Mentre la Rete ti offre l’anonimato o comunque una maggior leggerezza nel far precedere i tuoi pensieri e parole alla tua identità. E talvolta è stato utile, questo. Penso alla Primavera araba. Ma poi ci sono altri casi, come la ragazza malesiana che decide di suicidarsi ma prima chiede conferma con un sondaggio Instagram. E riceve un 69% di: sì, fallo. Ammettiamo che sia stato preso come un gioco, ti chiedi comunque se sia possibile che oggi si possa dire “ammazzati” semplicemente premendo un tasto e lavandosene le mani.
Per fortuna, ci sono invece esempi di come metterci la faccia, anche in Rete, sia meglio. Come nel caso dei crowdfunding, in cui ti viene chiesto di allegare alla tua campagna un breve video proprio per rendere più umana una richiesta di soldi che se ti arrivasse così, fredda, per mail penseresti per prima cosa a una truffa. Oggi abbiamo una tecnologia che sta facendo le corse per prendere il nostro volto, acquisire la nostra voce. Noi invece amputiamo le nostre componenti più empatiche e ci nascondiamo dietro righe di testo perché questo ci dà qualche grammo di coraggio in più.
Non lo giudico sul piano morale – amen – dico solo che rende le discussioni online uno strazio per lo spettatore. E chi discute, più libero di alzare i toni. Ecco perché, in Crosser, ho immaginato battaglie retoriche affidate al mezzo video piuttosto che alla chat scritta. Si crea un format in cui le persone si affrontano guardandosi e prendendosi la responsabilità di quello che dicono. E portano in campo voce, corpo, gesti, reazioni buffe e tutte le componenti spettacolari che offre l’essere umano.

Una nota su uno dei tuoi temi di ricerca: la killology. Che cosa hai scoperto di questa materia che ti ha stupito e come possiamo approfondire l’argomento?
Killology è la scienza che studia i processi mentali prima, durante e dopo l’atto di uccidere. L’ho scoperta attraverso i libri di Dave Grossman, il Tenente Colonnello direttore del Killology Research Group. Le sue ricerche investono prima di tutto gli ambienti militari ma parte del suo discorso include anche la società civile. Mi hanno colpito i suoi casi di studio su come media e tecnologia possano creare un fenomeno di assuefazione alla violenza.
Ora che i device fanno parte della nostra quotidianità e che mondo reale e mondo digitale sono due vasi comunicanti che si influenzano a vicenda, capire quali condizionamenti ci portiamo dietro passando da uno all’altro mi sembra importante. Posso inventarmi un gioco, chiamarlo Pace, riempirlo degli ideali più belli e di uno storytelling fantastico. Ma se poi su Pace permetto alla gente di azzannarsi, avrò creato degli azzannatori. E se il gioco gira su cellulare, avrò della gente che a furia di azzannarsi su Pace, poi alza gli occhi e si azzanna anche sull’autobus.
Proprio per questo quando immagini una piattaforma digitale, il lavoro più complesso è quello di perfezionare le regole di base. E definire soprattutto quello che non si può fare. Perché ormai è chiaro che le regole che scegli, alla lunga sono quelle che realmente creano le caratteristiche dei giocatori. Sulla piattaforma e anche fuori.
La responsabilità pesa, però la sfida è importante. Dare, attraverso il digitale, nuovi condizionamenti che siano positivi. E se Crosser ci riuscisse e i suoi giocatori ne uscissero migliorati, allora si creerebbe un meccanismo migliorativo che finirebbe per riguardare tutti.