“Cosa c’è in un nome? Ciò che chiamiamo rosa anche con un altro nome conserva sempre il suo profumo.” Se l’adagio shakespeariano venisse messo alla prova oggi, potrebbe suonare invece come: Coca-cola avrebbe mai potuto essere chiamata in altro modo? Forse il branding non è (sempre) poesia, ma in un’era di produzione e consumo di massa, avere un naming e una visual identity giusta è davvero importante. In fondo, nulla è più utilizzato così a lungo come un nome aziendale: non è solo un esercizio creativo, è strategia. Avevamo parlato tempo fa di loghi e rebranding tempo fa sulle nostre pagine, e oggi torniamo su questi argomenti per condividere con voi alcuni storie.
Iniziamo dagli Stati Uniti. Il chip Pentium di Intel, BlackBerry, Xbox Live, ma anche la stessa Coca-Cola, Facebook, Apple, Toyota e Hilton hanno alle spalle una delle più importanti società di consulenza, la Lexicon Branding, fondata da David Placek nel 1982. Un impero: basti pensare che già nel 2014, le vendite dei prodotti con il nome Lexicon valevano la bellezza di 350 miliardi di dollari.

Non sorprende, dunque, che la generazione di nomi di brand importanti sia il risultato di un processo rigoroso, soprattutto adesso che siamo nell’era iperconnessa, con così tanti touchpoint a disposizione. È una scienza, creativa, ma pur sempre una scienza. Da Lexicon, ad esempio, l’approccio per identificare la denominazione del BlackBerry ha previsto interviste ai pendolari a San Francisco. Da queste, è stata generata una mappa mentale di libera associazione: da una parte i concetti più freschi e divertenti, dall’altra parte, invece, i sentimenti provati dalle persone associati alle e-mail. Dopodiché, è venuta fuori una rosa di quaranta nomi, presentati allo sviluppatore Research in Motion e, dopo settimane di dibattiti, il nome BlackBerry ha visto la luce: i tasti sembravano chicchi di lampone, proprio perché lucidi e neri.
Come ha detto Placek al New Yorker, occorre capire qual è la storia che si vuole raccontare con il marchio. Anche la storia della denominazione del processore Pentium di Intel è ricca di insight molto interessanti. Il suffisso “ium” deriva dal “sodium” e ricorda come l’ingrediente sia vitale in un computer. Ma è anche una questione di sonorità. La “n” e la “m” ronzano come un computer, mentre la “p” e la “t” esplodono di energia. Il “pent” (che abbrevia “penta”) si riferisce al suo stato di quinta generazione di processori. Tanto semplice quanto complesso.

C’è poi da considerare la questione della Rete. Uno studio di un paio di anni fa condotto proprio da Lexicon ha rilevato che la ricerca era il fattore più importante negli URL dei siti web: meno del 3% delle persone digitava URL completi e, quando cercava un nuovo sito, il 95% delle persone utilizzava un motore di ricerca, faceva affidamento sulla compilazione automatica oppure faceva seguito a un collegamento ipertestuale.
Nell’economia digitale di oggi, il processo di creazione di un nome non può non tenere conto di queste informazioni, proprio perché le aziende devono affrontare una maggior concorrenza, spesso anche su base globale. Inoltre, come sappiamo, le persone sono più distratte che mai e c’è molta più confusione. Tra l’altro, sempre più consumatori leggono un nome da sé per la prima volta, prima ancora di sentirlo leggere da una voce in uno spot. Devono poi anche saperlo digitare correttamente sui motori di ricerca, senza cascare nei tranelli dell’ortografia; e devono saperselo appuntare se viene dettato al telefono. Insomma, le condizioni da tenere presente nella costruzione (o ricostruzione) sono parecchie.
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Nel 2017, secondo l’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale, l’attività di deposito di marchi a livello mondiale è stata di 12,4 milioni, con un aumento del 27% rispetto all’anno precedente. In generale, i marchi in tutto il mondo sono aumentati a oltre 339,8 milioni, un numero senza dubbio impressionante. Ma non è l’unico cambiamento di equilibri: il passaggio dai negozi agli schermi ha fatto sì che qualsiasi identità aziendale diventasse in un certo senso globale. A tal proposito, molti brand devono fare i conti anche con il suono del loro nome in altre lingue.

Ad esempio, la stessa Lexicon è stata accusata in alcuni ambienti di non prestare attenzione a questo fattore, a causa della somiglianza di Zune – il lettore musicale ora fuori produzione da Microsoft, che vedete qui sopra – con la parola ebraica zi-yun, che ha un significato più o meno analogo a “fuck”. Il CEO Placek non credeva che la pronuncia fosse così affine da essere problematica, ma tant’è. Ma come funziona il dietro le quinte di una società che lavora a questi livelli?
Il processo generalmente combina una ricca composizione di piccoli team creativi e di linguistica strutturale; dopodiché il lavoro viene affidato al team legale e a una rete globale di 90 linguisti in 57 paesi per eseguire le valutazioni. Lexicon ha persino rilasciato un’app iOS anni fa per aiutare i marchi a evitare le insidie della denominazione in un contesto internazionale, integrando il suo approfondito servizio di GeoLinguistics.
C’è poi il fattore umano. Come spesso spiega magistralmente Béatrice Ferrari nei suoi interventi, va tenuto il considerazione ad esempio il simbolismo del suono, ovvero il collegamento dei singoli suoni che gioca un ruolo fondamentale nel modo poi in cui percepiamo i nomi delle aziende. Nei naming inglesi, le vocali anteriori, per esempio (ee), tendono a connotare la piccolezza, mentre le vocali posteriori (oo) suggeriscono qualcosa di più sostanzioso. C’è ad esempio chi ha confrontato Lufthansa (e i suoi voli a lunga distanza) con Nike (e il suo equipaggiamento sportivo).

Uno studio della metà degli anni ’90 ha rilevato che in quel periodo la lettera B ha funzionato bene a livello internazionale, cosa che ha contribuito alle doppie maiuscole in BlackBerry. Allo stesso modo, anche i modelli consonante-vocale-consonante e l’allitterazione sono piacevoli all’orecchio: pensiamo ad “Amazon” e alla nostra già pluricitata “Coca-Cola”. E ancora: non va dimenticato che i nomi sono anche visivi. Come sappiamo, la parola Nike richiama lo swoosh e viceversa.

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Dagli Stati Uniti, ci spostiamo in Italia, per una case study molto recente che riguarda la banca Widiba. Partiamo dalla storia, dal 2013. Le sillabe che compongono il nome stanno per Wise-Dialog-Bank. Il processo di creazione è affascinante, perché si tratta di un nome nato da un progetto collettivo che si è articolato nell’arco di mesi. Tutto ha avuto inizio con il lancio di un contest su Zooppa.com, piattaforma di user generated content, e che in soli due mesi, ha visto 1.900 proposte, 36 video e 45.000 accessi. Creativi, appassionati e professionisti, hanno contribuito alla realizzazione del brand di quella che per settimane è stata definita semplicemente come “La banca che non c’era”. La proclamazione del vincitore è avvenuta poi attraverso una partecipazione social basata per un terzo sul canale remoto www.labancachenoncera.com, per un terzo sul voto del pubblico live e per un terzo sulla giuria. Qualche giorno fa, sette anni dopo, la notizia: Widiba rinnova la sua immagine.

Il rebranding è stato firmato dallo studio milanese jekyll & hyde, che ha sempre supportato il brand, dal font istituzionale alla segnaletica, dal card design fino allo sviluppo dell’identità di Widiba Prime il servizio di private banking. I direttori creativi Marco Molteni e Margherita Monguzzi raccontano così il processo:
“Abbiamo progettato una nuova brand signature capace di comunicare meglio il nuovo volto di Banca Widiba, senza perdere il DNA di modernità e innovazione che appartiene da sempre a questa banca. Il cambiamento più rilevante riguarda la parola banca che ora appare ufficialmente nel logotipo, il resto del progetto si è sviluppato rispettando il linguaggio visivo che avevamo creato in questi anni insieme a loro. I punti principali del rebranding sono il passaggio dall’utilizzo del minuscolo al maiuscolo e il dialogo tra il bold e il medium nel logotipo, mentre il marchio è stato reso più sottile e i colori istituzionali meno saturi, passando così da un impatto pop ad uno più sofisticato e autorevole, in linea con la crescita del brand.”

Dunque, cambia lo spessore della linea del logo, il font che acquisisce maggiore autorevolezza (e nitidezza), i diversi gradienti di colore, l’introduzione della parola banca… Tutti elementi che vanno a braccetto con la filosofia del gruppo, nonché con i canoni di trasparenza, pulizia e luminosità della narrazione estetica.
Ma ancora più interessante, dal nostro punto di vista, è lo studio approfondito che è stato fatto sulle persone, partendo innanzitutto da una presa di consapevolezza da parte dell’azienda, ovvero su come il proprio target si sia spostato verso un consumatore più adulto (35-60 con un focus su 40-50). La visualizzazione qui sotto rende bene l’idea.

L’identità culturale mappata, in effetti, risponde a una persona intraprendente, dinamica, aperta, e allo stesso tempo competente e affidabile. Allo stesso modo, anche il tono di voce fa da specchio, con brillantezza, semplicità e sicurezza. Che ben si adegua, tra l’altro, agli insight del periodo storico che stiamo vivendo, e del nostro bisogno di ritrovare un bilanciamento tra certezze e cambiamenti (oltre che tra sicurezza fisica o economica, digitale o fisico, vicinanza o distanza). Non ultimo, anche la UX si appoggia sullo studio comportamentale. Ad esempio, hanno analizzato come il consumatore non ami più scrollare all’infinito ed è per questo che sono state ridotte del 30% le occasioni di questo gesto.
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Infine, come ci insegnano sia le storie legate ai brand di Lexicon all’estero che il caso Widiba da noi in Italia, comprendere il contesto dove ci muoviamo nella progettazione di un nome o di un rebranding è estremamente importante. La radice stessa della parola è assai interessante: deriva dal latino contextus, che è il participio passato di contexĕre e significa ‘tessere insieme’, ‘intrecciare’.
Nell’ambito che stiamo prendendo in considerazione, il contesto è ciò che valorizza e tiene uniti tutti gli elementi che caratterizzano un’identità aziendale. L’archeologo Andrea Carandini, nel suo saggio La forza del contesto, usa un’immagine molto efficace, quando scrive che:
“un volto non è mai la somma di capelli, fronte, orecchi, occhi, guance, naso, bocca, mento e collo, ma una loro speciale composizione […] un viso è soprattutto il muoversi delle sue parti”.
E questo vale anche per la comunicazione.
Alice Avallone (Asti, 1984) insegna alla Scuola Holden e fa ricerca con l’etnografia digitale per le aziende. Da anni, infatti, unisce scienze sociali e ricerca in Rete per comprendere le relazioni umane online: codici, comportamenti, linguaggi. In passato ha scritto una guida di viaggio con la rivista Nuok (Bur), il manuale Strategia Digitale (Apogeo), e ha curato il libro Come diventare scrittore di viaggio (Lonely Planet). Per Franco Cesati Editore ha pubblicato il saggio People Watching in Rete. Ricercare, osservare, descrivere con l’etnografia digitale e il manuale di scrittura per il turismo Immaginari per viaggiatori. A inizio 2021 è tornata in libreria con #Datastories. Seguire le impronte umane sul digitale per la collana Tracce di Hoepli.