La strategia antisocial di Lush UK e le ricadute sulla community

Nell’aprile 2019, il brand appassionato di bombe da bagno Lush ha dichiarato che avrebbe sospeso i suoi account sui social media nel Regno Unito. Sospeso, non cancellato (la pagina Facebook, per dire, ha ancora tutti i suoi più di 425.000 fan) con un messaggio che recetiva qualcosa come: “Sempre più spesso, i social media rendono più difficile parlarci direttamente. Siamo stanchi di combattere con gli algoritmi… Quindi abbiamo deciso che è tempo di dire addio ad alcuni dei nostri canali social e aprire la conversazione tra noi.” Diversa la politica per gli altri paesi, come l’Italia, che mantiene la sua pagina nazionale, e quelle locali – come quella del negozio di via Garibaldi a Torino per fare un esempio.

Dunque, se da una parte gli utenti sperimentano la gincana tra annunci pubblicitari ripetitivi e contenuti superflui, dall’altra parte i marchi scendono a compromessi con gli algoritimi social. Ma come sta affrontando il brand questo cambio di paradigma, e come riesce a confrontarsi ancora con la sua community di #Lushies? Attraverso mail, telefono, live chat e nei negozi.

Storicamente Lush ha sempre utilizzato i social media per parlare di questioni ambientali e sociali, ma la verità è che anche se il marchio non pubblicherà più dall’account ufficiale, i fan più fedeli pubblicheranno ancora foto dei prodotti e dediche alla vita senza plastica. A fare da collante delle conversazioni spontanee, gli hashtag come #BathArt, #LushLabs, #LushMakeup e tutto ciò che inizia con #lush.

In tanti hanno definito questa mossa audace, altri invece totalmente sconcertante, ma l’impressione è che Lush sappia quello che sta facendo e non è detto che non sia di ispirazione per altri brand. Nel mentre, l’azienda continua a sfruttare la solida fanbase, l’esperienza di shopping multisensoriale nei negozi sul territorio, e ha recentemente lanciato una rivista, Lush Times. La speranza: continuare a relazionarsi con la propria audience evitando i bombardamenti di post per essere notati.

Il tema della fiducia e dell’autenticità è estremamente rilevante in questa epoca storia. E il passaggio del pubblico più giovane a piattaforme come TikTok suggerisce che le persone stanno cercando qualcosa di più spontaneo, immediato e “reale”. Non solo: c’è da tenere conto che molte persone amano ancora lo shopping vis-à-vis. Le ultime ricerche, infatti, hanno rilevato che l’85% dei clienti del Regno Unito preferisce fare acquisti in negozio piuttosto che online, in particolare il mercato dei Millennial.

Ovvio che Lush ha colto questo insight al volo. Il suo negozio di Liverpool, ad esempio, offre 1.380 metri quadrati di esperienze, tra cui parrucchiere, fiorista e spa. E il marchio ha anche aperto il suo più grande negozio asiatico a Shinjuku, Tokyo, offrendo quattro piani di tecnologia – con tanto di app che scansiona prodotti non confezionati per informazioni, oggetti con sensori tattili ed emoji per contrastare eventuali ostacoli linguistici.

Che Lush abbia preso un anno sabbatico sui social? Pazienda, perché la forza della sua base di clienti principale – soprattutto donne tra i 16 e i 24 anni – continuerà le conversazioni su dentifrici in pastigliette, scrub viso e sapone per capelli a suon di hashtag.

Che poi, in verità, Lush sta ancora investendo in influencer, dunque sta ancora utilizzando i social media, ma attraverso la voce di altri anziché la propria. Influencer grandi, ma anche e soprattutto quelli più di nicchia, micro e nano-influenzatori da 1.000 a 5.000 follower. Anche competitor come The Body Shop e Sephora iniziano a sceglier persone che parlino a loro nome.

Per Lush rinunciare ai social media significa avere la possibilità di affermare i propri valori di marca, ma allo stesso tempo rinunciare al controllo della propria narrativa aziendale su piattaforme di consumo e conversazioni cruciali. È un’arma a doppio taglio: la mancanza di una presenza sui social lascia i brand incapaci di prendere il controllo sulla propria web reputation o di impegnarsi in un dialogo positivo con il proprio pubblico.

Alice Avallone (Asti, 1984) insegna alla Scuola Holden e fa ricerca con l’etnografia digitale per le aziende. Da anni, infatti, unisce scienze sociali e ricerca in Rete per comprendere le relazioni umane online: codici, comportamenti, linguaggi. In passato ha scritto una guida di viaggio con la rivista Nuok (Bur), il manuale Strategia Digitale (Apogeo), e ha curato il libro Come diventare scrittore di viaggio (Lonely Planet). Per Franco Cesati Editore ha pubblicato il saggio People Watching in Rete. Ricercare, osservare, descrivere con l’etnografia digitale e il manuale di scrittura per il turismo Immaginari per viaggiatori. A inizio 2021 è tornata in libreria con #Datastories. Seguire le impronte umane sul digitale per la collana Tracce di Hoepli.

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