In che cosa consiste la professione di etnografo digitale? Ci sono attitudini personali che favoriscono il lavoro di ricerca sociale in Rete? E soprattutto, perché in Italia si è ancora un po’ diffidenti riguardo alla ricerca qualitativa?
L’abbiamo chiesto ad Alessia Questa Sono Io. Alessia ha cominciato a scrivere per il digitale nel 1999 e in questi venti anni ha scritto praticamente di tutto, da Come preparare una maschera al cetriolo in casa a Politiche agricole nel sud-est asiatico. Attualmente lavora come Content Manager per PLT puregreen, un’azienda di vendita di energia green, come consulente per Net4Partners che si occupa di digitalizzazione della PA e della PMI, e insegna con grande gioia e soddisfazione scrittura digitale all’Accademia delle Arti Creative di Jesi.
Con lei abbiamo parlato del dietro le quinte della netnografia, e di quali sono le posture più adatte per andare a caccia di identità culturali con il metodo etnografico applicato al digitale proprio come fa lei. Buona lettura!
E allora iniziamo proprio da qui.
Cosa significa lavorare con un approccio netnografico?
Significa farsi un po’ di silenzio nel rumore, guardare fuori e guardare dentro. Significa prendersi del tempo e rimandare la scrittura a dopo. Dopo aver ascoltato. Significa scandagliare i fondali del digitale in cerca di una perla, quella per cui è valsa davvero la pena di stare in apnea per tutto quel tempo.
Significa anche raccontare un po’ meno la propria storia e aprirsi a quella degli altri. Ti devi mettere in un angolo e impegnare il tempo ad accorgerti di tutto quello che ti accade intorno e ti sfugge perché è così piccolo che si perde nel grande, perché sei distratta, perché credi di sapere già tutto quello che c’è da sapere, perché le perle stanno dentro le conchiglie e le conchiglie stanno nascoste nella sabbia e la sabbia è l’umano e nell’umano ci devi mettere le mani dentro altrimenti niente tesoro.
È sempre molto di più di quello che sembra: questa è la frase che secondo me corrisponde perfettamente alla disposizione d’animo e all’intenzione che devono accompagnare il nostro lavoro. Andare oltre e essere pronti ad accogliere anche il non conosciuto, il non familiare, il non rassicurante.
Il digitale non è una dimensione altra dall’umano, è una sua estensione e in quanto tale restituisce tutto il campionario, articolo per articolo, anche quello in cui non stiamo comodi, quello che mette in discussione l’idea che ci eravamo fatti a tavolino, quello che fa scricchiolare le certezze che ti fanno sentire al sicuro.
L’approccio netnografico per me è un approccio prima esistenziale e poi professionale.

Se dovessi raccontare con una metafora il lavoro di un etnografo digitale, quale sceglieresti?
Il lavoro di un netnografo assomiglia al gioco “Unisci i puntini” dell’enigmistica: c’è un mistero da svelare e un filo invisibile che cuce una trama nascosta, solo con pazienza ardita riuscirai a scoprire cosa c’è dietro, a partire dalla consapevolezza che c’è sempre una relazione tra la parte e il tutto.
Ci sono attitudini personali che ti riconosci e che favoriscono il tuo lavoro di ricerca sociale in Rete?
Innanzitutto un’educazione al sensibile, all’invisibile e alle parole per dirli. Mia madre mi ha cresciuta libera di frequentare tutte le mie emozioni e di esprimere ogni tipo di curiosità, non c’è stata mai domanda di fronte alla quale io abbia ricevuto una chiusura come risposta. Questo mi ha permesso di essere aperta sempre e di essere attraversata da ogni esperienza senza che mi mancasse la confidenza con il sentimento che quella esperienza mi restituiva e con le parole che servivano a raccontarla. La confidenza che ho con le emozioni e con le parole che servono per dirle, ecco, credo che questo sia il mio vero talento.

Perché in Italia, dal tuo punto di vista, si è ancora un po’ diffidenti riguardo alla ricerca qualitativa?
Manca totalmente una cultura della pari dignità tra discipline tecnico-scientifiche e discipline sociali; le emozioni non vengono percepite come una funzione cognitiva e la capacità di intercettare le emozioni degli altri non viene considerata una capability.
La nostra cultura procede sul binario dell’opposizione ragione o sentimento, logica o irrazionalità e privilegia tutto ciò che ha una presenza quantificabile e riducibile al numero.
Per questa ragione, il materiale sensibile che ci restituisce l’indagine qualitativa finisce per cadere nello stereotipo della letteratura di genere, perfetto come lettura o chiacchiera da salotto ma fine a sé stesso e di poca considerazione dal punto di vista della ricerca.
Di fatto va persa una buona parte dell’intelligenza umana, quella sensibile, il percettivo, l’intuitivo e il creativo; va perso pure un tesoro di informazioni utilissime che potrebbero davvero aiutare le aziende a fare dei propri clienti persone soddisfatte e felici del proprio acquisto perché corrisponde davvero al desiderio e al bisogno che avevano, perché gli è stato descritto o raccontato con un linguaggio che hanno sentito vicino al proprio.
Il pensiero binario oppositivo rappresenta sicuramente il tentativo di fare ordine nella complessità dell’essere umano e dei fenomeni che lo riguardano e fa da argine all’irregolare ma di fatto l’essere umano resta complesso, πολύτροπον, multiforme, e se è sfaccettato bisognerà guardarlo da più punti di vista per comprenderlo al meglio.
Quello che mi auguro è che la #rivoluzionesensibile arrivi negli ambiti accademici e professionali, che ragione e sentimento comincino a essere percepite come due abilità alleate che insieme ci aiutano a interpretare il mondo, quanto, come e perché, che in ogni team di comunicazione e marketing si faccia posto alla nostra capacità di raccogliere indizi su emozioni, desideri, bisogni e comportamenti delle persone e che a questa capacità venga riconosciuta una dignità pari a tutte le altre competenze.

Ci sono libri che ti senti di consigliare per avvicinarsi a queste materie umani e digitali?
Visto che non esiste una pusher di libri sul digitale migliore di te ho deciso di consigliare un classico dell’antropologia culturale, Sesso e temperamento di Margareth Mead, una straordinaria lezione sulle costruzioni sociali, sui ruoli maschili e femminili, sul pregiudizio, un invito a guardarsi meno l’ombelico e a fissare altri orizzonti.
Alice Avallone (Asti, 1984) insegna alla Scuola Holden e fa ricerca con l’etnografia digitale per le aziende. Da anni, infatti, unisce scienze sociali e ricerca in Rete per comprendere le relazioni umane online: codici, comportamenti, linguaggi. In passato ha scritto una guida di viaggio con la rivista Nuok (Bur), il manuale Strategia Digitale (Apogeo), e ha curato il libro Come diventare scrittore di viaggio (Lonely Planet). Per Franco Cesati Editore ha pubblicato il saggio People Watching in Rete. Ricercare, osservare, descrivere con l’etnografia digitale e il manuale di scrittura per il turismo Immaginari per viaggiatori. A inizio 2021 è tornata in libreria con #Datastories. Seguire le impronte umane sul digitale per la collana Tracce di Hoepli.