Le iniziative dei brand che abbracciano la sostenibilità dimostrano come gli acquirenti non sono in cerca solo di una moda economica e veloce, ma anche di valori etici ed ecologici.
La settimana della moda di New York, la prima tappa di quello che un tempo era un atteso tour mondiale del fashion, ha tagliato il suo programma di alcuni giorni – da nove a cinque e mezzo – provando a mantenere l’interesse di tutta la filiera. Ma la mancanza di entusiasmo per le nuove collezioni fa il paio con il numero sempre crescente di persone che guardano alle passerelle (una delle industrie più inquinanti del mondo) più cinicamente.
Nella moda, il verde è diventato il nuovo nero e la sostenibilità è uno status, il che spiega perché i termini di ricerca come “econyl” e “marchi etici” sono aumentati del 66% dal 2018 al 2019. La cultura dei continui lanci di collezione sta perdendo un po’ la presa; il comportamento di consumo veloce e smaltimento dell’abbigliamento è responsabile della produzione del 20% delle acque reflue globali e del 10% delle emissioni di carbonio – ovvero più di tutti i voli internazionali e della navigazione marittima.

Intanto, per fortuna, la rivoluzione plastic-free si è fatta strada ufficialmente anche nei nostri armadi, un sentimento chee sta influenzando il nostro approccio agli acquisti di vestiario e il modo in cui trattiamo i nostri capi, ovvero il prendercene cura anziché buttarli via. E man mano che cresce il desiderio di frenare i consumi, il mercato dei vestiti di seconda mano esplode, crescendo 21 volte più velocemente della vendita al dettaglio: ha raggiunto 24 miliardi di dollari l’anno scorso nel 2018, e potrebbe doppiare il fast-fashion nel 2028.
Ma una domanda sorge spontanea: la sostenibilità è solo una delle tante etichette oppure le persone sono davvero disposte e pronte ad abbandonare l’approccio consumistici in favore di stili di vita a basso impatto? Esiste una forte tensione tra sostenibilità e accessibilità economica: sembra che circa 300.000 tonnellate di rifiuti tessili finiscono nei bidoni della spazzatura delle famiglie ogni anno e meno dell’1% del materiale utilizzato per produrre abbigliamento viene riciclato in nuovi vestiti.
Inditex, proprietario di Zara, ha annunciato lo scorso luglio che avrebbe usato tessuti puramente sostenibili nei suoi capi di abbigliamento entro il 2025; H&M ha invece anticipato che utilizzerà il 100% di cotone sostenibile entro il 2020. Nel frattempo, Urban Outfitters ha lanciato un programma di abbonamento per il noleggio di abbigliamento chiamato Nuuly, che prevede sei articoli al mese per 88 dollari.

Ecco la vera sfida per i brand di moda: risolvere il problema dei capi usa e getta una volta che si trovano nel nostro armadio. Lo store Loop, ad esempio, incoraggia i consumatori e i produttori a fare tesoro dei loro articoli per tutta la loro durata di vita. I produttori sono responsabili dell’investimento in contenitori durevoli, esteticamente accattivanti e riutilizzabili che i clienti sono orgogliosi di esporre nel proprio bagno o cucina.
Dunque, mentre le persone cercano di minimizzare i propri rifiuti, le attenzioni si rivolgono ormai anche verso la conservazione di ciò che già abbiamo, abbracciando la circolarità: gli imballaggi riutilizzabili, il cibo in eccesso che viene trasformato in nuovi prodotti (come i rifiuti di caffè BioBean trasformati in una fonte di carburante sostenibile), la cura dei nostri capi.
Interessante fenomeno è, ad esempio, la tecnica del rammendo visibile – che ha radici nell’arte giapponese del sashiko – un modo per preservare magnificamente i vestiti e allo stesso tempo dare loro una finitura artistica unica nel suo genere. Un approccio che storicamente ha avuto a che fare con i tempi della guerra, quando i capi di abbigliamento venivano razionati e le fabbriche tessili dovevano produrre parecchie forniture in tempi brevi.
Oggi il rammendo visibile è qualcosa di lussuoso e su misura – dalla Golden Joinery, con sede in Olanda, dove l’abbigliamento è riparato con filo d’oro, a marchi come Eileen Fisher, la cui campagna Waste No More è stata lanciata nel 2009 e trasforma i tessuti danneggiati in arazzi e opere d’arte unici nel loro genere. Il fenomeno è enorme anche sui social media: #visiblemending ha oltre 44.000 post su Instagram e #sashiko ne ha oltre 160.000.
Alice Avallone (Asti, 1984) insegna alla Scuola Holden e fa ricerca con l’etnografia digitale per le aziende. Da anni, infatti, unisce scienze sociali e ricerca in Rete per comprendere le relazioni umane online: codici, comportamenti, linguaggi. In passato ha scritto una guida di viaggio con la rivista Nuok (Bur), il manuale Strategia Digitale (Apogeo), e ha curato il libro Come diventare scrittore di viaggio (Lonely Planet). Per Franco Cesati Editore ha pubblicato il saggio People Watching in Rete. Ricercare, osservare, descrivere con l’etnografia digitale e il manuale di scrittura per il turismo Immaginari per viaggiatori. A inizio 2021 è tornata in libreria con #Datastories. Seguire le impronte umane sul digitale per la collana Tracce di Hoepli.