Camminando sul ghiaccio sottile / Il Covid-19 e i Millennial

intro e foto di Federico Ravassard

Il diario della mia quarantena, e le paure della Generazione Y

Per buona parte dei Millennial il Covid-19 è stato il primo evento storico dal quale sono stati toccati in modo diretto. Le loro vite sono cambiate in seguito a eventi che non dipendevano da una loro decisione: semplicemente, era la Storia ad avere preso il comando. Le preoccupazioni per il presente e il futuro sono molte, perché sia da un punto di vista lavorativo che umano il mondo che onosceremo non sarà più lo stesso nel quale abbiamo vissuto fino al febbraio 2020. A tutto ciò si abbina un’attesa snervante, perché si è stati chiamati ad andare incontro all’incognito nell’apatia e nell’isolamento della quarantena. Giornate che prese singolarmente potrebbero sembrare una qualunque domenica mattina di ozio e relax, ma che di fatto sono diventate la quotidianità sette giorni su sette per molti giovani abituati a ritmi di vita ben più frenetici e a una vita sociale molto più viva di quella delle generazioni precedenti.

Già prima del Coronavirus una grande fetta di Millennial si considerava, non a torto, disillusa verso il futuro, spesso a causa di un’economia traballante, stipendi medi ridotti di molto rispetto alla Generazione Boomer e, non ultimo, un pianeta in sofferenza a causa dei cambiamenti climatici. La mia quarantena è stata intossicata da una sensazione di ansia per il futuro, la paura che una strada già incerta di suo stesse per diventare ancora più tortuosa. Non essendo in grado di trovare un soggetto ben definito per la mia paura, ho provato a chiedere ad amici quali fossero i loro.

Ho cercato il punto di vista di persone che considero modelli, qualcuno già ben avviato nel mondo del lavoro, qualcuno in rampa di lancio, altri che invece rappresentano per me legami affettivi con i quali sento di avere un’affinità che poteva in qualche modo dare forma a ciò che sentivo dentro. Studenti di facoltà umanistiche, neolaureati di corsi scientifici, medici, ingegneri, professionisti nell’ambito della comunicazione o dell’economia. Ragazzi e ragazze che in un mondo sano non dovrebbero avere timore dell’indomani e che ora si ritrovano a procedere lentamente in una situazione fragile già in partenza e con la paura che in un momento tutto possa crollare in modo irreparabile.

Come se stessimo tutti camminando su ghiaccio sottile.

Questo progetto non vuole avere un fine pessimistico, tutt’altro: lo vedo come un modo per esorcizzare le nostre paure, per capire da cosa ripartire e a quali derive stare attenti. E, contemporaneamente, vuole essere un modo per dare una pacca sulla spalla a chi lo leggerà immedesimandosi in una risposta e dirgli: “ehi, tranquillo. Siamo tutti sulla stessa barca”.

Di cosa hai paura?

Della quarantena mi fa paura la monotonia, il sentirmi scivolare il tempo addosso, vederlo fuggire, un tempo perso che non mi verrà restituito. Del dopo quarantena temo la solitudine, temo che avrò dis-imparato a cercare le persone, a coltivare i rapporti umani, reali. – L., 25 anni

Ho paura di non essere più in grado di affrontare la normalità. Ho paura che gli strumenti che avevo prima non vadano più bene e di non essere pronta a crearne di nuovi. D’altra parte però ho anche paura che non cambierà niente, che questo momento finirà e noi a un certo punto ce ne dimenticheremo. E non sarà servito a nulla mentre invece avremmo così tanto da imparare. E infine ho paura di dover stare ferma, di non potermi più vivere i miei viaggi o magari di non riuscire più a farlo con la stessa spensieratezza di prima. – G., 28 anni

Temo la solitudine che molti anziani stanno subendo e subiranno per ancora tanto tempo. La routine di un caffè alla mattina nel medesimo bar, quindi l’esclusiva boccata d’aria quotidiana e lo scambio di relazioni indirette. Tutto quel fascio di relazioni mature è linfa per la nostra società e per definire il paese che siamo. La paura che questo valore giornaliero vada perso mi coinvolge direttamente destabilizzando il mio azimut per il futuro. – A., 28 anni

Ho paura che dovremo concepire una nuova normalità, anziché poter tornare a quella a cui eravamo abituati. E se questa non mi piacesse? Se non potessimo più viaggiare per il mondo? Se non potessimo più andare al cinema e sederci vicini e stringerci le mani nelle scene più dolci? Se non potessimo più vedere e baciare i nostri nonni senza pensare di essere possibile causa dei loro mali? Ne ho tantissimi di ’e se?’ , mi fa paura anche solo pensarli tutti. – F., 24 anni

Ho paura che dopo questo attimo in cui tutto è cambiato, tutto torni come prima. Che le persone si dimentichino nuovamente del valore della sanità pubblica. Che si torni ad inquinare più di prima e che, dopo questo periodo in cui abbiamo fatto uso solamente di ciò che è necessario, si torni ad abusare di tutto ciò che è superfluo. Che tutto torni come prima non perché prima tutto cadesse a pezzi, ma perché è da stupidi sopravvivere ad una pandemia e dire di non aver imparato nulla di nuovo. – V., 27 anni

Non so se si possa chiamare paura quella che percepisco, forse è più inquietudine di dover prendere coscienza della mia vita adulta. Le misure di contenimento, il dover ragionare sul lavoro, sul futuro (e avere il tempo di poterlo fare), preoccuparci per i nostri genitori, preoccuparci per i nostri nonni, renderci conto di chi ci manca, essere chiamati a far parte della Storia. Tutto questo è stato un richiamo alla realtà, ci ha resi coscienti della nostra posizione nel mondo. Credevo che questo sarebbe accaduto gradualmente, invece ci è stato lanciato in faccia. – G., 25 anni

Ho paura che non cambi nulla dopo, che la gente si abbruttisca intellettualmente, che il distanziamento sociale funzioni troppo bene e favorisca egoismi e indifferenza. – T., 33 anni

A livello personale non ho molta paura del futuro, al massimo quella di perdermi l’estate e rimanere isolato dagli amici. Le preoccupazioni arrivano dal lavoro: ho paura che quando le cose ripartiranno io non sarò pronto, perché nel frattempo mi sarò perso d’animo. Questa situazione porta a deprimersi e c’è il rischio che quando ci sarà da prendere il treno della ricrescita uno possa non recepirlo in tempo e perderlo del tutto. – G., 25 anni

Di tutta questa situazione non mi fanno paura l’isolamento o la precarietà del mio lavoro, sono cose che per svariate ragioni ho imparato a maneggiare da anni. Quello che invece mi fa veramente paura è che non saremo capaci di sfruttare al meglio quello che abbiamo imparato perché per proteggerci nasconderemo in un angolo buio della nostra mente i ricordi di questi giorni. Che ci fermino invece di farci muovere. Che ormai il nostro l’abbiamo fatto e non ci si può chiedere dell’altro. Ho paura che non sfrutteremo questa rinnovata fiducia in noi stessi per contrastare crisi più lente, silenziose e apparentemente meno letali – come quella climatica – ma che hanno conseguenze più disastrose di un virus. – E., 28 anni

Ho paura che gli altri non mi considerino più una persona ma un vettore del virus, un’untrice. La quarantena mi ha fatto capire l’importanza del calore e del contatto umano; adesso ho paura di non poterne ricevere più perché nessuno vorrà mai toccarmi o avvicinarsi a me. – M., 23 anni

Mi ricorderò di questo periodo come una lunga apnea, dove tutti i giorni sono lunedì ma nessuno è veramente domenica. Lo ricorderò come un periodo dove tutto è il lavoro, e il lavoro è tutto, e non esistono valvole di sfogo. Lo ricorderò  perché ho visto gente faticare a vivere senza socialità, senza l’aperitivo, senza poter fare piani, esattamente come lo era per me nella quotidianità pre-virus.  Mi ha fatto riflettere sulla mia normalità, sul peso del lavoro nella mia vita, sugli orari, e mi ha fatto paura pensare che forse, anche dopo questo momento, nulla cambierà. – F., 26 anni

Ho paura che il nostro mondo si trasformi in una realtà distopica, come quelle raccontate dai grandi autori del ‘900, in conseguenza ad a una profonda crisi in cui le persone sono traumatizzate, alienate e impaurite. O perlomeno ho paura che questo sia un indizio che ci dice chiaramente: “ehi, si stiamo andando esattamente da quella parte!”. E mi chiedo: ma da donna e potenziale mamma, vorrò mai mettere alla luce un figlio in un mondo così incasinato? Però vorrei dire di cosa non ho paura. Forse avevo sogni troppo grandi o troppo legati al mondo che mi ha cresciuta, e non ho fatto in tempo a realizzarli. Per questo “ripartire da capo” potrebbe essere per me la cosa giusta. – O., 24 anni

Ho paura che questo distacco imposto ci influenzerà e che avremo sempre più paura dell’altro e del diverso. Temo per i bambini che a livello inconscio svilupperanno un senso di isolamento e distacco in un momento della loro crescita che li influenzerà pesantemente. Ho paura della crisi che ci travolgerà nei prossimi anni, ma confido nella speranza dell’essere dinamici per adattarsi al cambiamento e allo stesso tempo riuscire a fermarci ad apprezzare piccole cose date prima per scontate. – S., 24 anni

Federico Ravassard (Lione, 1994) non ha ancora ben capito cosa farà da grande. Al momento fotografa e scrive di sport, per la maggior parte del tempo, anche se gli piace molto perdersi in divagazioni e temi extra settore. Tra i suoi riferimenti ci sono i colori della Kodak Ektar 100, i primi album degli Arcade Fire e le Bic di colore blu. Collabora con le principali riviste e aziende del mondo outdoor e con reportage di stampo sociale e ambientale ha pubblicato su alcuni dei maggiori quotidiani nazionali.

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