Antropologia digitale e brand: creare relazioni umane in Rete

In molti Paesi è un trend consolidato ormai da parecchi anni, quello che vede agenzie e aziende assumere antropologi digitali per avere un aiuto a trovare un senso al cambiamento del comportamento dei consumatori. In Italia, siamo ancora un passettino indietro, anche per quello che riguarda lo studio della materia, spessa sottovalutata da chi si occupa di marketing. Noi di Be Unsocial abbiamo iniziato a occuparcene da vicino dallo scorso luglio, e da qualche settimana abbiamo anche un primo partner strategico, la (non) agenzia di comunicazione Pensiero Visibile di Verona, che ha sposato la nostra visione antropologica.

Le nostre tracce digitali stanno diventando tante e complesse, e più crescono i big data, più dobbiamo imparare a leggere tra le righe, intercettare segnali deboli, trovare un significato. L’antropologia digitale, che eredita dalle scienze umane e sociali la profondità dello sguardo e l’approccio etnografico, parte proprio dalle impronte umane in Rete, e indaga i comportamenti dell’uomo che vive nei territori digitali, i linguaggi che utilizza per comunicare con gli altri, e le relazioni con gli strumenti tecnologici a disposizione. Come usiamo gli smartphone, perché non riusciamo a tenerlo a distanza quando dormiamo, in che modo influenza il nostro comportamento davanti a un’opera d’arte in un museo, ad esempio.

Se da una parte la Rete mette in collegamento il mondo intero, dall’altra fa emergere nicchie e community sempre più piccole e con voci (e valori, esigenze, identità) riconoscibili. È in questo contesto che i brand devono migliorare l’esplorazione di questi angoli del web, comprendere il loro modo di relazionarsi delle tribù e creare occasioni di conversazione autentiche.

Il professore di Antropologia al University College of London Daniel Miller è riconosciuto come il pioniere della disciplina. Nel 2012 ha iniziato il Social Networking and Social Sciences Research Project, un progetto di cinque anni che ha visto nove antropologi impegnati a esaminare l’impatto globale dei social media in diversi paesi del mondo, Italia del sud compresa. I risultati sono stati rilasciati in una serie di documenti dal titolo Why We Post. Quello che segue è un estratto che fotografa una situazione ancora piuttosto attuale, almeno su Facebook.

In un modo leggermente diverso, la stessa conclusione si trae dal nostro campo di ricerca in Italia del sud. Anche qui gli imprenditori rappresentano il più esplicito esempio di uso dei social media. Sembrano stare perennemente al telefono. Possono avere due smartphone e aggiornano regolarmentei loro profili, personale e professionale, su Facebook. Eppure, di nuovo, non si tratta poi molto di uso diretto dei social media, dato che le limitate prove indicano che anche per attività come i parrucchieri la pubblicità su Facebook non è particolarmente efficace. Piuttosto questo massiccio uso da parte delle persone dedite al commercio ha più a che fare con l’espressività italiana e il desiderio di visibilità e di mettersi in mostra.

Generalmente le persone qui sono a loro agio nel mescolare affari e uso personale con un senso comune di stile. Questo in parte perché gli affari sono stati tradizionalmente basati sulle relazioni personali, ma ancora di più perché la motivazione principale a monte del business non è il profitto, ma piuttosto il modo in cui esso mostra la posizione sociale e agevola la socializzazione, come fini in se stessi. È anche il modo in cui le persone rappresentano se stesse come buoni cittadini e ottengono prestigio sociale. Particolarmente attivi sono gli affari che cercano di coltivare lo stile e un senso di cool, come bar e ristoranti.

Ecco cosa significa occuparsi di antropologia digitale: studiare l’uomo nei territori digitali.

La tecnica della netnografia, ovvero il metodo di ricerca caro all’antropologia digitale, esplora usi, costumi e insight delle persone in Rete. Spesso, parte proprio dai big data – conversazioni, interazioni, connessioni ed esperienze sociali – per poi iniziare un percorso di ricerca qualitativa ed empatica per comprendere in profondità i perché. È facile dunque intuire come la netnografia si basi sopratutto su un tipo di immersione profonda, tipica dell’antropolgia culturale, e di interpretazione altamente qualificata e artigianale. Il vantaggio distintivo della netnografia rispetto ad altre forme di ascolto sui social media è che offre una comprensione più contestualizzata e autentica, proprio perché più umana.

Inoltre, proprio poiché si tratta di una tecnica qualitativa, il risultato è un ventaglio di storie ricche che riguardano i consumatori, connessioni culturali, rituali, linguaggi e codici, nonché immagini visive. Human data che nessun software riuscirebbe a estrapolare. L’antropologia digitale, dunque, e il suo metodo di ricerca netnografico, sono un nuovo potente toolkit per le aziende che stanno cercando il modo giusto per entrare in relazione con le persone online.

Ecco alcuni degli aspetti corporate che possono essere indagati con questa disciplina.

La percenzione di un brand: le percezioni che abbiamo di un’azienda sono influenzate da esperienze funzionali, sociali – anche legate a eventi di stretta attualità – ed emotive che spesso condividiamo online, facilmente leggibili attraverso l’etnografia digitale.

Lo studio degli audience: è possibile progettare il proprio pubblico, andando a raggruppare le persone per aspettative bisogni, interessi e priorità comuni, esplorando gli insight culturali.

L’identificazione delle tendenze: osservando le conversazioni in Rete e ciò che viene condisivo è possibile comprendere come cambiano le nostre abitudini e i nostri rapporti, per intercettare oggi le tendenze che verranno consolidate un domani.

La creazione di connessioni emotive: la netnografia aiuta a sviluppare strategie di contenuto solide e specifiche, costruendo relazioni emotive su misura dei diversi audience.

Un altro esempio utile per capire l’applicazione degli studi antropologici digitali. Nel 2017 il professor Miller ha lanciato un secondo progetto di ricerca, The Anthropology of Smartphones and Smart Ageing, per indagare l’impatto degli smartphone sul modo in cui le persone di mezza età affrontano le questioni di salute, usando così il potenziale dell’antropologia digitale per rendere le applicazioni mobile dedicate al benessere (mHealth) più sensibili ai contesti socioculturali. Il progetto viene raccontato man mano dai ricercatori coinvolti su questo blog, direttamente dagli undici siti monitorati: Irlanda, Italia, Camerun, Uganda, Brasile, Cile, Trinidad, Gerusalemme Est, Singapore, Cina e Giappone. Come è facile intuire dai progetti di Miller, l’antropologia digitale offre significative chiavi di lettura per capire il mondo interconnesso che abitiamo, le relazioni che instauriamo e i perché dietro ai comportamenti che adottiamo.

Non è forse fondamentale per chi ha beni e servizi da proporre a un pubblico online fatto di persone in carne e ossa? Ecco perché i brand oggi dovrebbero andare a caccia soprattutto di esperti di semiotica, etnografia digitale, strategia culturale e tecniche del linguaggio visivo, per imparare a relazionarsi con più significato e pertinenza. Con Be Unsocial speriamo di aiutare ad aumentare questa consapevolezza. Passo dopo passo.

Alice Avallone (Asti, 1984) insegna alla Scuola Holden e fa ricerca con l’etnografia digitale per le aziende. Da anni, infatti, unisce scienze sociali e ricerca in Rete per comprendere le relazioni umane online: codici, comportamenti, linguaggi. In passato ha scritto una guida di viaggio con la rivista Nuok (Bur), il manuale Strategia Digitale (Apogeo), e ha curato il libro Come diventare scrittore di viaggio (Lonely Planet). Per Franco Cesati Editore ha pubblicato il saggio People Watching in Rete. Ricercare, osservare, descrivere con l’etnografia digitale e il manuale di scrittura per il turismo Immaginari per viaggiatori. A inizio 2021 è tornata in libreria con #Datastories. Seguire le impronte umane sul digitale per la collana Tracce di Hoepli.

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